L’americanizzazione della $alute
Enti e associazioni lanciano l'allarme per una sanità nazionale sempre più al collasso. Ecco i motivi – privati – di una scelta – pubblica – scellerata.
Ma vediamo qualche dato. Secondo la Federazione italiana dei medici di medicina generale già nei prossimi 5 anni 14 milioni di cittadini potrebbero rimanere senza medico di famiglia. Motivo? Andranno in pensione più di 45mila dottori del Servizio sanitario nazionale (SSN) senza che sia stata definita una politica di assunzioni per controbilanciare il “buco”.
Ancora, secondo dati Censis, nel 2017 sono stati 12 i milioni di italiani che hanno rinunciato alle cure per mancanza di risorse economiche, quelle stesse cure che – è bene ricordarlo – dovrebbero essere garantite a tutti di dalla nostra Costituzione (art. 32). Secondo lo stesso rapporto, allo Stato italiano mancherebbero almeno 30 miliardi per garantire gli standard assistenziali pubblici.
Riassumendo: lo Stato concede sempre meno fondi al servizio sanitario pubblico e gli italiani avendo sempre meno soldi – per politiche di austerità (aumento tassazione, taglio investimenti e incentivi a lavoro e occupazione) – rinunciano a quella salute che, come cantava Nino Manfredi, quando c’è, c’è tutto. Dall’altra parte, chi ancora può permettersele in caso di necessità si avvale di formule di “sanità integrativa”, ossia banalmente privata, tanto che se nel 2009 erano 9 milioni gli italiani che avevano un’assicurazione sanitaria integrativa, nel 2017 sono cresciuti fino a 14 milioni, e nel 2025 potrebbero arrivare – stipendi permettendo – a 21 milioni.
Ad ogni modo, il messaggio che viene spesso fatto passare dai principali media nazionali e da taluni politici è, troppo spesso, che la sanità pubblica è sempre meno efficiente (servizi di bassa qualità, lunghe attese, eccetera), che “spreca troppo” ed è mal gestita, pertanto non resta che ricorrere al privato. Eppure il concetto è banale: se a una macchina (sanità) togli la benzina (soldi) e a un certo punto finisce, non significa che è rotta, ma che deve andare dal benzinaio (Stato). Attenzione però, qui non si vuole demonizzare la sanità privata di per sé, quanto piuttosto la spinta di forze esterne nel voler portare la sanità pubblica verso forme sempre più privatistiche, ossia imprenditoriali e che non tutti si possono permettere.
Qualcuno forse si sta chiedendo se un governo, qualora volesse invertire questa tendenza e dunque aumentare il sostegno alla sanità pubblica, ne avrebbe il potere. La risposta è no, o almeno, non se l’Italia rimane nell’Unione europea. Per capire il perché è necessario tornare ancora una volta – molto velocemente – agli accordi internazionali di libero scambio.
Il nostro paese aderisce all’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO), creata con l’unico scopo di liberalizzare completamente beni e servizi in tutto il globo. Per far questo, tra i suoi accordi dispone il Technical barriers to trade (TbT), volto a eliminare qualsiasi restrizione al commercio internazionale, inclusa la sanità. Se infatti da una parte l’accordo nelle sue premesse riconosce il diritto per un Paese di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare la tutela della salute, dall’altra queste non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificata tra Paesi ossia appunto delle restrizioni dissimulate al commercio. Non solo, per poter adottare misure “protettive” bisogna fornire dati tecnici e scientifici, e a decidere se un’esigenza possa considerarsi tale, esiste un comitato apposito. Questo comitato, secondo il funzionamento del Wto, non è composto dai rappresentanti di ogni Paese, ma da chi ha il curriculum e la preparazione tecnica. Pertanto può darsi che ad esempio un finnico prenda una decisione per l’Italia, pur non essendoci mai stato. Senza contare che questi comitati lavorano a porte chiuse.
Come se non bastasse, lo stesso accordo è inglobato all’interno di un altro accordo internazionale di libero scambio, il CETA (tra Ue e Canada, in vigore in via provvisoria dal 21 settembre 2017), che vuole assolutamente garantire “che le misure sanitarie e fitosanitarie adottate dalle parti – gli Stati – non creino ostacoli ingiustificati agli scambi”. Insomma, caro Stato non “disturbare” il profitto con le tue ipocondrie. Tutto questo perché? Perché gli italiani solo nell’ultimo anno hanno speso circa 35 miliardi in sanità privata, e sono quasi 5mila le imprese che operano nel settore medicale, e le multinazionali che operano sul nostro territorio sono straniere per il 60%.
Ma non è finita qui. Senza scendere in ulteriori e noiosi dettagli, basti sapere che questi accordi mirano alla cosiddetta “armonizzazione” che, detto in soldoni, significa “livellare” le varie normative nazionali per rendere le misure sanitarie e di controllo al minimo. Ecco allora che tutti i nodi vengono al pettine: esiste infatti una differenza rilevante tra la legislazione americana, che prevede l’introduzione di misure protettive (come il ritiro dal mercato di un prodotto considerato dannoso) solo a fronte di evidenze scientifiche certe (il che accade assai raramente), e quella europea incentrata sulla “prevenzione” e che dunque, per semplificare brutalmente, blocca un prodotto quando vi è anche solo il più lontano dubbio che possa essere rischioso. America, la stessa dove se non hai un’assicurazione o paghi profumatamente o non puoi curarti neppure un’unghia incarnita. Lo stesso non-modello in cui, fin troppo velocemente, ci stiamo trasformando.
di Guido Rossi - 16 febbraio 2018
L'Intelletuale Dissidente
"Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga… Ma alla fine la mancanza di tutele nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale».Così Romano Prodi rispondeva quasi un anno fa in un’intervista su Repubblica. Un’indiretta ammissione di colpa di una classe politica che, per scelte thatcheriane, ha tagliato e continua a tagliare i fondi di un servizio essenziale come quello sanitario, che oggi sta trasformandosi sempre più in privato.
Ma vediamo qualche dato. Secondo la Federazione italiana dei medici di medicina generale già nei prossimi 5 anni 14 milioni di cittadini potrebbero rimanere senza medico di famiglia. Motivo? Andranno in pensione più di 45mila dottori del Servizio sanitario nazionale (SSN) senza che sia stata definita una politica di assunzioni per controbilanciare il “buco”.
Ancora, secondo dati Censis, nel 2017 sono stati 12 i milioni di italiani che hanno rinunciato alle cure per mancanza di risorse economiche, quelle stesse cure che – è bene ricordarlo – dovrebbero essere garantite a tutti di dalla nostra Costituzione (art. 32). Secondo lo stesso rapporto, allo Stato italiano mancherebbero almeno 30 miliardi per garantire gli standard assistenziali pubblici.
Riassumendo: lo Stato concede sempre meno fondi al servizio sanitario pubblico e gli italiani avendo sempre meno soldi – per politiche di austerità (aumento tassazione, taglio investimenti e incentivi a lavoro e occupazione) – rinunciano a quella salute che, come cantava Nino Manfredi, quando c’è, c’è tutto. Dall’altra parte, chi ancora può permettersele in caso di necessità si avvale di formule di “sanità integrativa”, ossia banalmente privata, tanto che se nel 2009 erano 9 milioni gli italiani che avevano un’assicurazione sanitaria integrativa, nel 2017 sono cresciuti fino a 14 milioni, e nel 2025 potrebbero arrivare – stipendi permettendo – a 21 milioni.
L’infografica Centimetri, illustra l’allarme sulla carenza dei medici, 45.000 in pensione in 5 anni: i dati di Fimmg e Anaao, Roma 9 febbraio 2018. Da ANSA/CENTIMETRI
Ad ogni modo, il messaggio che viene spesso fatto passare dai principali media nazionali e da taluni politici è, troppo spesso, che la sanità pubblica è sempre meno efficiente (servizi di bassa qualità, lunghe attese, eccetera), che “spreca troppo” ed è mal gestita, pertanto non resta che ricorrere al privato. Eppure il concetto è banale: se a una macchina (sanità) togli la benzina (soldi) e a un certo punto finisce, non significa che è rotta, ma che deve andare dal benzinaio (Stato). Attenzione però, qui non si vuole demonizzare la sanità privata di per sé, quanto piuttosto la spinta di forze esterne nel voler portare la sanità pubblica verso forme sempre più privatistiche, ossia imprenditoriali e che non tutti si possono permettere.
Qualcuno forse si sta chiedendo se un governo, qualora volesse invertire questa tendenza e dunque aumentare il sostegno alla sanità pubblica, ne avrebbe il potere. La risposta è no, o almeno, non se l’Italia rimane nell’Unione europea. Per capire il perché è necessario tornare ancora una volta – molto velocemente – agli accordi internazionali di libero scambio.
Stima del moltiplicatore fiscale (ovvero del ritorno sull’investimento) per le diverse componenti di spesa pubblica tra il 1995 e il 2007 per 25 paesi dell’UE (da Reeves et al., 2013). Come si può notare, il ritorno sulla spesa pubblica dedicata alla sanità (health) è positivo.
Il nostro paese aderisce all’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO), creata con l’unico scopo di liberalizzare completamente beni e servizi in tutto il globo. Per far questo, tra i suoi accordi dispone il Technical barriers to trade (TbT), volto a eliminare qualsiasi restrizione al commercio internazionale, inclusa la sanità. Se infatti da una parte l’accordo nelle sue premesse riconosce il diritto per un Paese di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare la tutela della salute, dall’altra queste non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificata tra Paesi ossia appunto delle restrizioni dissimulate al commercio. Non solo, per poter adottare misure “protettive” bisogna fornire dati tecnici e scientifici, e a decidere se un’esigenza possa considerarsi tale, esiste un comitato apposito. Questo comitato, secondo il funzionamento del Wto, non è composto dai rappresentanti di ogni Paese, ma da chi ha il curriculum e la preparazione tecnica. Pertanto può darsi che ad esempio un finnico prenda una decisione per l’Italia, pur non essendoci mai stato. Senza contare che questi comitati lavorano a porte chiuse.
Come se non bastasse, lo stesso accordo è inglobato all’interno di un altro accordo internazionale di libero scambio, il CETA (tra Ue e Canada, in vigore in via provvisoria dal 21 settembre 2017), che vuole assolutamente garantire “che le misure sanitarie e fitosanitarie adottate dalle parti – gli Stati – non creino ostacoli ingiustificati agli scambi”. Insomma, caro Stato non “disturbare” il profitto con le tue ipocondrie. Tutto questo perché? Perché gli italiani solo nell’ultimo anno hanno speso circa 35 miliardi in sanità privata, e sono quasi 5mila le imprese che operano nel settore medicale, e le multinazionali che operano sul nostro territorio sono straniere per il 60%.
Ma non è finita qui. Senza scendere in ulteriori e noiosi dettagli, basti sapere che questi accordi mirano alla cosiddetta “armonizzazione” che, detto in soldoni, significa “livellare” le varie normative nazionali per rendere le misure sanitarie e di controllo al minimo. Ecco allora che tutti i nodi vengono al pettine: esiste infatti una differenza rilevante tra la legislazione americana, che prevede l’introduzione di misure protettive (come il ritiro dal mercato di un prodotto considerato dannoso) solo a fronte di evidenze scientifiche certe (il che accade assai raramente), e quella europea incentrata sulla “prevenzione” e che dunque, per semplificare brutalmente, blocca un prodotto quando vi è anche solo il più lontano dubbio che possa essere rischioso. America, la stessa dove se non hai un’assicurazione o paghi profumatamente o non puoi curarti neppure un’unghia incarnita. Lo stesso non-modello in cui, fin troppo velocemente, ci stiamo trasformando.
di Guido Rossi - 16 febbraio 2018
L'Intelletuale Dissidente
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