Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?
“Per la cultura giuridica delle istituzioni internazionali è a rischio di essere considerato in sostanza schiavitù più o meno qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario, o magari dalla fornitura “free lance” di servizi puntuali da un individuo a chi occasionalmente ne voglia ingaggiare i servizi”, spiega Stefano Sutti, managing parter dello studio legale Sutti di Milano, uno tra i cinque studi legali più importanti del panorama italiano commerciale.
“Naturalmente, queste categorie mentali prescindono completamente dalla misura della retribuzione, che si ritiene sempre più comunemente debba essere determinata dal mercato. Nulla impedisce d’altronde che il mercato, grazie anche (localmente) ad un cartello spontaneo di datori di lavoro e (globalmente) alla concorrenza internazionale e al cosiddetto dumping sociale da parte di paesi dove comunque il costo della vita è molto inferiore, possa assestarsi al di sotto del livello del livello di sussistenza per il lavoratore interessato e le persone che da lui dipendano. E se al primo problema hanno tradizionalmente fatto fronte (ma solo per i dipendenti) legislazione sociale e contrattazione collettiva, tali strumenti restano sostanzialmente spuntati rispetto, invece, alla globalizzazione.
Ora, in una realtà di mercato perfetto questo non pone particolari problemi al datore di lavoro che sia in grado di rimpiazzare prontamente le risorse umane di cui ha bisogno, ma lo disincentiva naturalmente ad investire nella loro sopravvivenza, sviluppo professionale, benessere, fedeltà. Al contrario, non solo nelle economie tradizionali il singolo lavoratore viene considerato un capitale da proteggere; ma viene tuttora considerato alla stessa stregua anche in società fortemente industrializzate come quella giapponese e di altre parti dell’Asia, dove la contrattualizzazione formale del rapporto secondo il modello occidentale ha fatto venir meno solo fino ad un certo punto il vincolo culturale di fedeltà reciproca che si stabilisce ai vari livelli all’interno di una comunità di lavoro stabile e delle unità produttive che lo compongono”.
Con questo panorama legale e contrattuale già si può evincere un potenziale scenario di schiavitù laddove non sia presente un contratto normato e ben strutturato. Di fatto si può suggerire che già oggi, in Italia, le partite IVA siano sottoposte a rischio di schiavitù.
Consideriamo le esternalizzazioni. Uno dei grandi successi della società moderna, capitalista e liberista (in pratica i discendenti di Friedman), è l’esternalizzazione dei costi spinta all’estremo. Dalla fabbrica di tessuti che scarica nel fiume vicino i liquami, alla centrale di energia che pompa acqua dal vicino lago, depauperando la riserva idrica utile per l’agricoltura o il consumo umano. Dei danni ambientali da esternalizzazione vale la pena dedicare un’analisi a parte, ma consideriamo le esternalizzazioni umane.
Focalizziamoci sulle partite IVA. Diversi milioni di Italiani ne sono felici (per così dire) possessori. Il leitmotiv è che sono imprenditori di se stessi. Un termine, quello di imprenditore, che già di per sé suscita (o dovrebbe suscitare) il pensiero di un futuro radioso, una sfida dell’individuo alla continua crescita economica e alla perfetta integrazione tra libertà civili ed economiche.
In vero non è certo un segreto che molte partite IVA sono né più né meno finte. Capita che l’azienda, per rendere più “fluida” la sua gestione delle risorse umane, chieda (evento molto raro come si può immaginare) ai suoi dipendenti di licenziarsi. In seguito chiederà loro di aprire una partita Iva e lavorare come consulenti per l’azienda stessa, svolgendo le stesse mansioni.
Tuttavia in questo virtuoso percorso di emancipazione dell’individuo dall’azienda, vengono cancellati tutti i benefici che un contratto garantiva.
Le partite IVA infatti non hanno giorni di vacanza pagati, non hanno malattie pagate, i costi degli strumenti elettronici (cellulare, computer) sono a loro carico. Non vi sono certezze per il futuro, e il costo-ora tende, a volte, a decrescere (rispetto alla precedente posizione di impiegato assunto). Non si dimentichi inoltre il costo della tassazione, che viene ad aumentare. Sulle spalle del fortunato possessore della partita IVA pesano inoltre un eventuale mutuo o affitto, cibo, costi sanitari etc..
Se le partite IVA sono avventurosi e impavidi imprenditori in potenza, non si dimentichi altri contratti come quelli a zero ore. Anche in questo caso su chiamata, con ovvi vantaggi per l’azienda appaltante, minori benefici osservabili (oltre ad un elevato livello di stress e ansia) per il contrattato.
Perché, quindi, non si può valutare, nei programmi politici delle incombenti elezioni, una proposta di legge per re-instaurare l’istituto della schiavitù? Fatti due conti veloci alcuni milioni di neo-schiavi potrebbero essere interessati ad un programma che possa migliorare le loro condizioni.
Bene inteso non si propone certo un regime di frustate, violenza, o pasto per i leoni. Consideriamo alcune società straniere che già oggi danno una serie di benefici: casa pagata, ticket pranzo, copertura sanitaria, servizio di lavanderia etc.. sono tutti benefit che permettono al padrone (pardon, all’azienda) di tenere vicini a se gli impiegati. Di recente un nuovo percorso di esternalizzazione (spesso descritto come benefit) ha preso piede, nelle aziende: si invitano i propri dipendenti a lavorare dal rispettivo domicilio. Indubbiamente vi sono vantaggi per chi ha una famiglia, ci si potrebbe domandare se tali scelte non hanno vantaggi anche per le aziende.
Con tutte queste esternalizzazioni che la società privata pratica, e che vengono, di fatto, scaricate spesso sui budget statali (dalle crescenti sindrome nervose che pesano sul budget del ministero della Salute ai rischi di esodati) ci si può domandare se, per molti cittadini, non sarebbe opportuno diventare schiavi.
Consideriamo alcuni vantaggi prendendo, ad esempio, come matrice di partenza l’impero romano. Uno schiavo aveva diritto a un alloggio, cure mediche, vitto. Molti schiavi ricevevano formazione. Anche oggi i costi della formazione coperti dal padrone sono sicuramente un asset per il dipendente-schiavo.
Ovviamente lo schiavo dovrà concedere la sua totale disponibilità. Tuttavia non si suggerisce la presenza di catene o collari di proprietà come nell’impero romano.
In vero, a ben guardare, le catene sono già oggi disponibili e largamente diffuse. Il cellulare che le aziende generosamente donano ai propri dipendenti sono di fatto catene virtuali. Autorizzano (formalmente o informalmente) l’azienda ad avere accesso al dipendente in qualunque momento, sia con mail messaggi o telefonate. Le catene quindi esistono, e sono sempre presenti nella vita quotidiana.
In vero, a ben guardare, le catene sono già oggi disponibili e largamente diffuse. Il cellulare che le aziende generosamente donano ai propri dipendenti sono di fatto catene virtuali. Autorizzano (formalmente o informalmente) l’azienda ad avere accesso al dipendente in qualunque momento, sia con mail messaggi o telefonate. Le catene quindi esistono, e sono sempre presenti nella vita quotidiana.
Se assumiamo che gli aspetti negativi dello schiavismo (sfruttamento, incertezza per quanto riguarda il proprio futuro, mancanza di libertà) sono già di fatto presenti in una larga parte della classe lavoratrice, mi domando se non sarebbe un vantaggio per la comunità e lo stato se le grandi aziende non si facessero carico di un contratto di schiavismo.
Dopo tutto la libertà non è per tutti. O no?
Enrico Verga
Fonte: www.econopoly.ilsole24ore.com
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