Le politiche monetaria ultra-espansive della BCE hanno sedato le tensioni finanziarie ma non hanno risolto nessun problema strutturale della zona euro: le divergenze tra la Germania, che registra forti avanzi fiscali e debito pubblico decrescente, e l’euro-periferia, sempre più indebitata, spingono l’euro verso il capolinea. All’interno di un’Unione Europea in via di dissoluzione, si sta cercando di ritagliare un nocciolo duro: è la coppia Francia-Germania. Per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, la classe dirigente italiana sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”.
Italia: gli europeisti sognano un futuro da satellite francese
Il mercato obbligazionario ha smesso dal 2012 di essere il termometro dell’euro-crisi: il celebre “spread”, il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato periferici e quelli dei Bund, si è eclissato dopo il varo dell’allentamento quantitativo della BCE. Fiumi di liquidità hanno irrorato i mercati: i focolai di crisi sono stati soffocati, ma non estinti. Se è infatti vero che le politiche di austerità/svalutazione interna hanno riequilibrato le bilance commerciali negli ultimi anni, la cura era ed è destinata inevitabilmente a fallire (dopo aver rapinato il rapinabile). Si analizzano le finanze pubbliche: la Germania ha chiuso il 2017 con un avanzo fiscale di 5,3 €mld1 ed un rapporto debito pubblico/PIL in calo, la Francia con un deficit pari al 3% del PIL ed un debito pubblico record, ormai vicino al 100%, l’Italia con un deficit attorno al 2,5% del PIL ed il debito pubblico al 132%. Se la Germania è il centro dell’euro, sia Francia che Italia se ne stanno allontanando a grande velocità. Nonostante la BCE.
Anche tralasciando le crisi di altra natura che affliggono l’Unione Europea (l’emergenza migratoria, la svolta nazionalista-autoritaria-russofila dell’Est Europa, il problematico divorzio con il Regno Unito) è ormai evidente che il progetto d’integrazione europea, lanciato nell’immediato dopoguerra perché completasse la NATO, è giunto al capolinea.Dal 2011 in avanti, parallelo al progetto originario dell’Unione Europea a 28 membri, è quindi emerso un “piano B” con cui salvare il processo d’integrazione europea: è “l’Europa a due velocità”, che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti.
Un’unione a due significherebbe che Berlino si faccia carico di Parigi, trasferendo un ammontare di risorse tale da consentirle di “vivere al di sopra dei propri mezzi”: è un’ipotesi piuttosto remota, considerato che in Germania manca attualmente una maggioranza parlamentare per procedere in questo senso, ma non escludibile a priori. Dopotutto la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e di un arsenale atomico: per Berlino, “l’acquisto della Francia” sarebbe un buon affare e le consentirebbe di evitare la sindrome di isolamento/accerchiamento di cui ha sofferto dal 1870 in avanti. Al di là di una maggiore integrazione con Parigi, Berlino però non andrà: sicuramente non è nell’interesse della Germania creare le condizioni perché anche l’Italia possa partecipare “al nocciolo duro”.
Tutte le iniziative tedesche di questi ultimi mesi vanno, infatti, nella direzione di un’espulsione forzata dell’Europa mediterranea dall’area euro: dall’ipotesi di “default controllati” avanzata da Wolfgang Schaeuble alla stretta sui crediti deteriorati, passando per nuovi criteri per la valutazione dei Btp iscritti nei bilanci della banche, è chiaro che la Germania sta facendo di tutto per spingere l’Italia e l’euro-periferia fuori dall’euro.
La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania.Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania.
Si considerino gli investimenti. Se le acquisizioni tedesche in Italia sono piuttosto limitate dal 2011 in avanti (il marchio Ducati, l’Italcementi della famiglia Pesenti), quelle francesi esplodono letteralmente e, concentrandosi in settori strategici come l’energia, la finanza e le telecomunicazioni, godono dell’esplicita approvazione dei governi Monti-Letta-Renzi. Nel 2011 Parmalat è acquistata da Lactalis e Bulgari da LVMH, nel 2012 Edison da EDF e Acea entra nell’orbita GDF Suez, nel 2016 Pioneer è comprata da Amundi e Telecom è scalata da Vivendi, nel 2017 Luxottica è inglobata da Essilor. Saltuariamente, circolano voci di un acquisto di Unicredit da parte di Société Générale e delle Assicurazioni Generali da parte di AXA: quel che è certo è la finanza italiana è ormai dominata dal trio francese Jean Pierre Mustier (ad di Unicredit), Philippe Donnet (ad di Generali) e Vincente Bolloré (azionista di Mediobanca e padrone di Telecom), a loro volta espressione della finanza Rothschild che occupa attualmente l’Eliseo con Emmanuel Macron. L’Italia, negli ultimi sette anni, è diventata un sotto-sistema dell’economia francese, con l’avvallo dei governi “europeisti” nostrani: il governo Gentiloni ha persino inviato i nostri militari a presidiare i fortini della Legione Straniera in Niger.
In quest’integrazione a senso unico (qualsiasi acquisto italiano in Francia è bloccato, dal passato interesse di ENEL per Suez alle più recenti mire di Fincantieri su Stx Saint-Nazaire),si può facilmente scorgere il grande disegno geopolitico della Francia: ridurre l’Italia, acquisendo il controllo di tutti i gangli dell’economia, alla condizione di Stato-vassallo, così da raggiungere una massa tale da confrontarsi con la Germania che, al contrario, sta coagulando attorno a sé i Paesi dell’Europa nordica e centrale (Olanda, Austria, Slovenia, Paesi Baltici, etc.). L’Italia, che ha la stazza economica ed una popolazione sufficiente per essere un attore autonomo, guadagna invece da questo scivolamento nell’orbita francese soltanto la promessa di rimanere agganciata al processo di integrazione europea: come satellite di Parigi. La fallimentare classe dirigente sta, in sostanza, vendendo il Paese alla Francia per salvare se stessa, sperando che l’assoggettamento a Parigi eviti la nostra espulsione “dall’Europa”.
Anche lo schema dei trattati bilaterali è un indice della gerarchia che si sta creando in Europa: la proposta di un nuovoTrattato dell’Eliseo, presentata il 22 gennaio 20182, dovrebbe rafforzare l’integrazione tra la Germania (contraente forte) e la Francia (contraente debole). Nessun accordo simile è previsto tra Germania e Italia. Il nostro Paese dovrebbe invece siglare entro il 2018 il cosiddetto “Trattato del Quirinale”, presentato dal premier Gentiloni lo scorso 10 gennaio, in occasione della visita a Roma di Emmenuel Macron3: si tratterebbe del corrispettivo del Trattato dell’Eliseo, dove però la Francia è il contraente forte e l’Italia quello debole. Accantonata qualsiasi pretesa di parità tra i diversi Stati, “l’Europa a due velocità” sarebbe quindi una struttura gerarchica, dove l’Italia è un sotto-sistema della Francia, a sua volta dipendente dalla Germania.
I prossimi mesi saranno decisivi per le sorti dell’Unione Europea: gli scenari spaziano dal collasso totale del processo d’integrazione europeo, qualora Angela Merkel non riuscisse a formare una Grande Coalizione e prevalessero in Germania le forze “nazionaliste”, ad un suo restringimento alla coppia franco-tedesca, qualora Emmanuel Macron ed Angela Merkel riuscissero a raccogliere il consenso politico necessario. In qualsiasi caso, non è interesse dell’Italia rimanere in “serie A” come satellite della Francia: una classe dirigente fallita ed esautorata sogna di stipulare il “Trattato del Quirinale” e assoggettarci alla Francia, una nuova classe dirigente dovrebbe studiare come ricollocare l’Italia al centro del Mediterraneo e rimettere in sesto l’economia con un’accurata programmazione industriale.
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