Alimentazione naturale, popolazioni indigene e malattie dell’occidente
di Davide Bertola
Agli inizi del Novecento, nei paesi industrializzati, si è preso coscienza del legame esistente tra malattie della civiltà – ossia, malattie cardiovascolari, diabete, obesità e tumori – e alimentazione occidentale.
Nei primi decenni del secolo scorso, alcuni medici che lavoravano a stretto contatto con popolazioni indigene in giro per il mondo, notarono la quasi completa assenza in quelle popolazioni delle malattie tipiche dell’occidente prima elencate.
Un medico dentista, Weston A. Price (1870-1948), in particolare, si distinse per la ricerca e l’impegno, in svariate parti del mondo, nello studio di una dozzina di gruppi etnici diversi, tra cui indiani peruviani, aborigeni australiani e montanari svizzeri.
Cosa avevano in comune i montanari svizzeri con gli aborigeni australiani studiati da Price?
Avevano in comune l’assoluta mancanza di malattie tipiche dell’occidente: malattie cardiovascolari, diabete, cancro, obesità, ipertensione, malattie degenerative, carie, ecc., quelle che negli stessi anni il medico inglese Denis Burkitt definì “malattie occidentali” perché direttamente collegate all’alimentazione occidentale. Un’osservazione interessante la fece Albert Schweitzer, il quale notò che gli “indigeni che intraprendono la vita dei bianchi nelle abitudini alimentari, poco tempo dopo manifestano le stesse malattie dell’occidente che prima non manifestavano”.
Libri e varie...
Altri ricercatori notarono che la comparsa delle malattie tipiche dell’occidente nelle popolazioni indigene, seguiva di poco l’introduzione presso quelle comunità di cibi occidentali, quali farina bianca, zuccheri raffinati e altri prodotti tipici da supermercato. Osservarono, inoltre, che la sequenza si ripeteva sempre nello stesso ordine: obesità, diabete di tipo 2, ipertensione, malattie cerebrovascolari e malattie cardiache.
Price girò il mondo alla ricerca di quelli che lui chiamava i “gruppi di controllo”, cioè popolazioni isolate che non erano state esposte all’alimentazione moderna. Egli raccolse i suoi studi in un testo dal titolo “Nutrition and Physical Degeneration” (Alimentazione e degenerazione fisica). Il lavoro di Price, è oggi utile perché ci indica una via possibile per riappropriarci della proto-ecologia del cibo.L’industrializzazione del cibo, purtroppo, ha tolto la cultura stessa del cibo, ha tolto il collegamento fra materia prima e prodotto finito e il controllo sui vari passaggi. Abbiamo perso di vista l’insieme e ci concentriamo solo sul risultato finale di un processo, ovvero quello che troviamo nel piatto davanti alla nostra bocca e ai nostri occhi, senza chiederci nulla di come sia arrivato lì e in che condizioni.
Una fattoria italiana tipica, prima della seconda guerra mondiale, auto produceva tutto quello di cui aveva bisogno, gli unici alimenti che comperava spesso barattando i propri prodotti erano: sale e zucchero in modeste quantità, e al nord, olio. Le persone di quella fattoria avevano, quindi, il controllo sul novantanove per cento del cibo che consumavano; al contrario oggi, una normale famiglia acquista la totalità degli alimenti che consuma.
Abbiamo perso il contatto, non abbiamo più il controllo, non c’è più relazione con il cibo. Esso è diventato un’altra cosa rispetto a prima, non è più il simbolo della relazione fra la propria terra e l’uomo, ma è diventato merce di consumo.
Cosa scoprirono questi ricercatori studiando le popolazioni indigene del mondo?
Scoprirono che mangiando cibi tradizionali, di qualunque natura fossero, vegetali o animali, godevano di ottima salute e avevano bisogno di pochissime cure mediche. Arrivarono, quindi, alla conclusione che nell’alimentazione moderna c’è qualcosa che provoca determinati problemi, oppure è carente di qualcosa.Price in particolare scoprì che le popolazioni indigene avevano un’alimentazione molto più ricca di vitamina A e D, rispetto alla dieta occidentale.
Si sa che la lavorazione industriale degli alimenti li impoverisce di fattori nutritivi e di vitamine. Questi cibi danno, cioè, calorie/energia ma non nutrono l’organismo, non forniscono i micronutrienti sotto forma di vitamine e minerali di cui il corpo ha bisogno. Price concluse che la civiltà moderna aveva sacrificato la qualità alla quantità.
Price trovò popolazioni che si cibavano di pesce e frutti di mare, altre con diete a base per lo più di carne, altre con diete a base di latticini e altre con dieta vegetariana, tutte ugualmente sanissime. I due esempi più eclatanti, erano i “Masai” africani che avevano una dieta basata su carne, sangue, latte e rari apporti di origine vegetale, e gli Esquimesi che vivevano di pesce crudo, selvaggina, uova di pesce e grasso di balena e non mangiavano mai verdura o frutta, ma stavano benissimo.
Price concluse, inoltre, che il comune denominatore per una buona salute, è nutrirsi con cibi freschi, ricavati da animali(…e tralasciamo qui la questione etica che riguarda il nutrirsi di animali) e piante cresciute su terreni ricchi di nutrienti. Notò, cioè, che la qualità del suolo è fondamentale per la salute e il benessere e nel 1932, pubblicò un articolo dal titolo ”Nuova luce su alcune relazioni tra le carenze di minerali del suolo, gli alimenti poveri di vitamine e alcune malattie degenerative”. Price aveva capito già molti anni fa, che quello che mangiamo ci collega alla terra, ai suoi elementi e all’energia solare. Amava, infatti, dire alle sue conferenze, che quello che noi mangiamo oggi, qualche mese fa faceva parte del sole.
La moderna industrializzazione del cibo, ha invece, allungato la catena alimentare, trasformando prodotti coltivati in terre lontane e poi conservati troppo a lungo; tutto questo secondo Price, infrange le regole della natura e priva i cibi prodotti industrialmente dei nutrienti indispensabili per la salute dell’uomo. Spezzando i legami tra risorse locali, cibi locali e popolazioni locali, il sistema del cibo industriale interrompe il ciclo dei nutrienti attraverso la catena alimentare.
Alla conclusione di questo breve viaggio, possiamo affermare che l’essere umano nella storia e nei vari continenti si è adattato perfettamente a innumerevoli regimi alimentari anche estremi, ma non si è assolutamente adattato alla dieta occidentale e all’industrializzazione del cibo.
Articolo di Davide Bertola: Master Reiki Metodo Mikao Usui. Diploma Professionale Quadriennale in Naturopatia con specializzazione in Iridologia. Master in floriterapia Clinica. Abilitazione all’esercizio dell’arte ausiliaria delle professioni sanitarie di Massaggiatore ed Idroterapista. Sito web : http://www.isideacademy.it
Tratto da: “Nutrition and Physical Degenaration”, Weston A.Price – http://www.westonaprice.org.
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