Braccialetti elettronici e microchip. Storie di schiavi, di infiltrati in Amazon, di Tempi moderni
Amazon e il braccialetto elettronico…
Un braccialetto elettronico in grado di monitorare i movimenti dei dipendenti e di controllarne la produttività. Dopo le polemiche per i ritmi di lavoro frenetici e massacranti, le pause cronometrate, unsistema di controllo che esaspera la competitività tra gli stessi lavoratori, le battaglie per avere diritto al riscaldamento o all’aria condizionata – tutte tematiche già denunciate dal report investigativo di Jean-Baptiste Malet pubblicato in En Amazonie − nei giorni scorsi Amazon è finita di nuovo al centro delle polemiche per il progetto di un braccialetto elettronico per monitorare i suoi dipendenti.
Lo scopo dichiarato? Evitare errori nella spedizione.
Il brevetto è stato depositato nel 2016, ma è stato riconosciuto ufficialmente soltanto la scorsa settimana. La multinazionale di Jeff Bezos si è difesa e ha risposto al clamore suscitato parlando di “speculazioni” e sostenendo che «la sicurezza e il benessere dei dipendenti sono la nostra priorità».
Il sistema esiste già e viene utilizzato, per esempio, da un altro colosso, Yoox, che vende capi d’abbigliamento, accessori e design via internet. Si tratta in questo caso di una tecnologia passiva, “che si usa per tracciare gli oggetti”, che si differenzia da una attiva, “che guida l’operatore e lo localizza” come quella del braccialetto elettronico.
Utile o no che sia, la questione del braccialetto ha riproposto diverse tematiche nel campo del lavoro, dal “caporalato digitale” al controllo sempre più pervasivo e alla relativa mancanza della privacy.
Innovazioni tecnologiche: verso lo schiavismo?
Si tratta di “innovazioni tecnologiche” per rendere i processi produttivi più semplici ed efficaci, o di mezzi per deumanizzare il lavoro e schiavizzare sempre più i dipendenti?
Riccardo Staglianò nel suo libro Al posto tuo, osserva come il successo di piattaforme o multinazionali come Amazon si basino su un assioma fondamentale: il “fattore serenità”. Si rimuove ogni traccia di stress dall’esperienza dell’acquisto, regalando una totale pace mentale all’acquirente che può persino tracciare la spedizione e restituire l’acquisto.
Questa “serenità”, però, avviene a discapito dei lavoratori e dei negozianti che ogni giorno sono costretti a chiudere le proprie attività in quanto schiacciati dalla competitività dei colossi digitali. In tutto ciò Staglianò parla di “disboscamento dagli umani” in quanto il supercapitalismo digitale, in particolare in settori come la logistica, non solo ha «assunto magazzinieri, pagandoli poco e facendoli trottare tanto», ma ora punta alla progressiva sostituzione dei lavoratori umani con le macchine.
L'infiltrato in Amazon Francia: esperienza da "Tempi moderni"
Già Malet, nel suo libro inchiesta in cui racconta la sua esperienza di “infiltrato”come lavoratore interinale all’interno di un magazzino francese di Amazon per circa un mese, descriveva la pressione dei lavoratori ai quali si era unito testimoniando l’alto tasso dei casi di depressione, mal di schiena ed emicrania. Assunto come “picker”, la funzione di Malet era quella di recuperare le merci disposte sugli scaffali di immensi capannoni, poi di portarle a un collega che le imballava. Il “picker”, racconta Malet, deve rimanere in piedi, non è autorizzato a sedersi. L’apparecchio elettronico, lo scanner-lettore di codici a barre che permette di identificare le merci, è inoltre geolocalizzabile. I caporeparto hanno così la possibilità di sorvegliarlo, di sapere sempre dove si trova e di controllare il suo tasso di produttività, in tempo reale. Ciò aumenta lo stress, in quanto se un impiegato non rispetta il ritmo, rischia il licenziamento. Tutto è registrato tramite l’uso di badge di identificazione.
Insomma, il passo alle manette invisibili o elettroniche che siano è breve e la descrizione dei ritmi di lavoro fa venire in mente la catena di montaggio immortalata da Charlie Chaplin in Tempi moderni.
Invece di “progredire”, di evolverci e di migliorare non solo la produttività ma anche le condizioni e i diritti dei lavoratori, siamo ripiombati indietro nel tempo. È doveroso inoltre ricordare come le statistiche economiche evidenzino la dicotomia tra abbondanza e disuguaglianza: al di là delle promesse e delle innovazioni apportate, il progresso tecnologico ha anche creato disparità, favorendo l’aumento delle diseguaglianze.
A ciò si aggiunge la questione del controllosul luogo di lavoro, tematica di certo non nuova e che ho ampiamente trattato in precedenza nei miei articoli e saggi. Pensiamo per esempio alla nuova moda di impiantare chip dermale per “comodità”, sui luoghi di lavoro senza minimamente pensare alle conseguenze sociali del gesto.
La nuova moda del Microchip sottocutaneo: la nuova moda
Destò scalpore qualche mese fa la notizia che i manager della Three Square Market (32M) avevano proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda: password, codici di accesso, autorizzazioni a sbloccare serrature, ecc. L’iniziativa non è isolata perché sono diverse le aziende in tutto il mondo che stanno adottando questo stratagemma: una tra tutte la svedese Epicenter.
Già nel 2015 era stata Fincantieri a provare a introdurre una modalità simile: nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto integrativo l’azienda avrebbe chiesto di introdurre microchip negli scarponi e negli elmetti degli operai «per implementare la sicurezza» sul lavoro e conoscere sempre la posizione dei dipendenti. I sindacati intervennero dichiarando inaccettabile la richiesta.
Possiamo immaginare come il controllo già capillare e pervasivo nella nostra società sarebbe completo in caso di progressivo chipping dei lavoratori: ognuno di noi sarebbe un “uomo di vetro”, trasparente, sotto costante sorveglianza. Lo sguardo elettronico del Governo ci seguirebbe in ogni attimo della nostra esistenza e la nostra esistenza sarebbe sempre più disumanizzata e alienante.
Una costante discesa verso gli inferi… in attesa dei robot
Malet nel suo libro inchiesta descrive infatti i lavoratori come dei dannati in un girone infernale: uomini e donne condannati a lavorare per vivere. In questa discesa agli inferi, il lavoro prima è stato delocalizzato per abbassare i costi, trasferendo la produzione in Paesi emergenti, dove gli operai costano meno che da noi, poi come effetto collaterale della delocalizzazione i lavoratori immigrati sono arrivati da noi sperando di guadagnare di più. La miseria con cui venivano pagati gli immigrati è diventata poi il parametro cui adeguare la nostra paga, livellando così verso il basso tutti i salari. Ovviamente non è finita. Il passo successivo è la sostituzione dei lavoratori con i robot. A confermarlo è giunto da Davos l’appello di Jack Ma, fondatore e principale azionista del sito di commercio on line Alibaba che ha denunciato il fatto che presto i robot cancelleranno milioni di posti di lavoro, «perché in futuro queste mansioni verranno svolte dalle macchine». Macchine che non devono essere pagate, non soffrono la stanchezza, la fame o la depressione. Eh già, sono robot.
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