L’ITALIA DEL RANCORE CHE DICE SEMPRE NO.
di ROBERTO PECCHIOLI
Puntuali come i primi rigori dell’inverno, arrivano i rapporti periodici degli istituti di ricerca e statistica. L’ISTAT, più ufficiale e governativo, ci ha dimostrato una volta di più la crisi della natalità, estesa anche agli stranieri (il soggettivismo liberale e libertario fa male a tutti) e l’incremento dell’emigrazione italiana. Gli anziani corrono verso lidi in cui la vita costi meno e le tasse non si riprendano larga parte della pensione, mentre i giovani, qualificati o meno, se ne vanno per cercare un avvenire meno precario. Il Censis, l’istituto di ricerche sociali del professor De Rita, snocciola meno cifre e più percentuali: non fotografa, analizza ciò che vede e studia. I risultati, tuttavia, sono sovrapponibili, e descrivono un’Italia in crisi, vecchia, addormentata, percorsa da sfiducia, stanchezza ed altri sentimenti negativi. E’ l’Italia delle negazioni che avanza, ed il Censis centra il suo rapporto su una parola, come dire, poco scientifica e per niente sociologica: rancore.
Il rancore è un’attitudine sorda e non di rado sordida, non ha la forza dell’odio o l’energia immediata della collera. E’ piuttosto un concentrato di disprezzo, invidia, impotenza assai adatto a designare lo stato d’animo più comune in questa vecchia nazione che non guarda al passato e non spera nel futuro. Ad avviso di chi scrive, forse il ritratto più verosimile dell’Italia odierna dovrebbe far riferimento al meno studiato dei sette vizi capitali, l’accidia, ossia lo stare fermi, la scarsa volontà, l’insufficiente coraggio di affrontare la vita, il mare aperto. E’ un’Italia carica di rancori, sì, ma è anche, per disgrazia, la nuova patria di Oblomov, il personaggio letterario russo di Gonçarov che faceva dell’immobilità un valore, finendo per vivere ignobilmente nel disordine e nella trascuratezza.
Strano paese, tuttavia, il nostro, in cui circa l’80 per cento dei cittadini è convinto che sia difficile salire nella scala sociale, ma al 78, 2 per cento si dichiara soddisfatto o molto soddisfatto della vita che conduce, dunque, dobbiamo pensare, anche della sua condizione sociale. Ci sembra questa la chiave per leggere i dati statistici e sociologici elaborati dagli istituti specializzati: individualmente siamo contenti, niente affatto infelici, ma come comunità siamo pervasi da ogni sorta di cattivi pensieri. Insomma, come accade da secoli, vince a mani basse l’arte di arrangiarsi e risolvere in qualche modo i problemi soggettivi e familiari, e perde, anzi si disperde la dimensione civica, lo spazio pubblico, il senso comunitario.
Niente di nuovo sotto il sole d’Italia, se non la necessità di pronunciare forte e chiaro una verità scomoda, sgradita ai più: l’italiano medio, ovvero noi tutti, non è affatto migliore delle istituzioni che disprezza e nei confronti delle quali cova rancore. Diciamo di più: lo strato sottile del rancore cela un’invidia profonda, il desiderio insoddisfatto di essere parte di quel sistema politico, economico, sociale, istituzionale di potere tanto esteriormente disprezzato. Dall’invidia si diventa strabici, scrisse Antin Cechov, e lo strabismo pare l’unica spiegazione razionale della schizofrenia di un popolo soddisfatto della sua vita personale, ma convinto che non potrà migliorare, colpa della politica e delle istituzioni che fanno schifo. La sfiducia nei partiti è all’84 percento, quella nel governo al 78 e tutto il resto segue a ruota nel discredito e nel rigetto di massa.
Parlando della sua nazione, José Ortega y Gasset distingueva tra una Spagna ufficiale, negativa ed accidiosa, e una Spagna vitale, quella del popolo. Crediamo che per l’Italia non valga, purtroppo, l’analisi del filosofo madrileno. Un esempio tra molti: le elezioni sono disertate in massa, il sindaco di città come Genova è stato scelto da meno della metà del corpo elettorale, così come il governatore di una regione delle dimensioni della Sicilia, ma, contemporaneamente il “voto” televisivo per i protagonisti di una trasmissione volgare e corriva come Il Grande Fratello Vip ha raggiunto i 45 milioni. Dunque, tenendo conto che per la maggior parte si tratta di voti multipli, diversi milioni di connazionali hanno votato (a pagamento, poiché si tratta di un meccanismo telefonico) per Cristiano Malgioglio e per la sorellina di Belén Rodrìguez.
Non c’è da esserne fieri, specie considerando che la televisione commerciale è in mano al capo da un quarto di secolo – più di Mussolini – di una delle grandi forze politiche della nazione. Quella è l’educazione che ci hanno impartito e che, diciamolo, abbiamo allegramente accettato. Non è un caso che tra le preoccupazioni indagate dal Censis, quella per la qualità della scuola e della cultura sia agli ultimi posti. Un popolo di ignoranti soddisfatti di sé che attribuisce sempre agli “altri” (politica, governo, economia) i mali che depreca, gli insuccessi di cui è protagonista. Abbiamo assistito a lunghi servizi televisivi sulla Leopolda, l’adunanza nella vecchia stazione ferroviaria di Firenze degli amici di Matteo Renzi: la sensazione precisa è che tutti, ma proprio tutti i partecipanti fossero i titolari, gli aspiranti e le terze linee del sistema di potere, coloro che ambiscono – per meriti politici- a ricoprire gli incarichi pubblici, politici, burocratici, governo e sottogoverno. Nessuna idea, ma grande autopromozione e abile tessitura di relazioni: certamente, tutti membri di quella larga maggioranza soddisfatta di sé.
Il Censis sottolinea che il blocco del cosiddetto ascensore sociale crea rancore e paura del declassamento. Verissimo, come hanno del tutto ragione quei due terzi di italiani convinti che il cittadino non conti nulla. Ma che cosa fanno tutti gli insoddisfatti, i rancorosi, se non usare ogni energia a livello individuale? Non promuovono alcuna rivolta, nessun dissenso forte, organizzato, mirato. I giovani italiani sono diventati un gruppo sociale di aspiranti a posti di commesso di supermercato o centro commerciale, di partecipanti a concorsi pubblici di massa (Checco Zalone fu geniale, quando fece dire al suo personaggio bambino “Da grande voglio fare il posto fisso!”), ma hanno smarrito il coraggio della giovinezza, lo slancio con cui si va all’attacco. Poi, magari si è sconfitti, ce lo spiegò Giorgio Gaber (la mia generazione ha perso), ma almeno si è combattuto, si sono mosse le acque.
Questo spaventa più di tutto, il dormiveglia, l’accidia, un nuovo fatalismo alimentato dal potere, che diffonde la falsa narrazione di un mondo di automatismi inderogabili: il mercato è una legge di natura, come la competizione ad oltranza, il darwinismo sociale e via dicendo.
Il cittadino non conta nulla, la politica è sporca, tutto andrà per il peggio. Sono luoghi comuni assai seri, ma ogni generazione tentava comunque di cambiare la cose. Oggi, silenzio, rassegnazione, tutt’al più qualche tumulto, al termine del quale tutto resta come prima e qualche capetto viene cooptato nel sistema, come accadde a Firenze con i Ciompi. Uno dei primi episodi di sollevazione popolare per motivi economico-politici fu appunto quello dell’estate 1378 a Firenze, protagonisti i battitori della lana, espulsi dalle botteghe per l’uso dei primi macchinari. Il loro capo fu associato al potere dai Medici e tutto finì con lo scioglimento dei Ciompi e l’esilio di Michele di Lando.
Senza la disprezzata politica non c’è progetto, e si finisce prigionieri di gruppi di potere fintamente contrapposti, in realtà solidali per casta: politica, economica, finanziaria, accademica, dell’intrattenimento. Ha fatto riflettere troppo poco l’arresto di un candidato grillino siciliano, la cui attività imprenditoriale si basava, secondo l’accusa, sul ricatto ai dipendenti, che ricevevano uno stipendio effettivo ben inferiore a quello dichiarato. Tale pratica è assai diffusa, specialmente al Sud, ed è assai difficile da estirpare senza una coscienza civile di massa. Un nostro conoscente afferma che non conviene reagire, giacché migliaia di persone – italiani ed immigrati – sono pronti a svolgere gli stessi lavori con salari più bassi.
Su questi temi, forse, il rancore latente, finora coperto dall’accidia e, concretamente, dal paracadute dell’aiuto familiare, potrebbe sfociare, finalmente, in un radicale dissenso. Ma il potere ha in mano tutte le carte, soprattutto riesce a controllare i desideri, le idee, le speranze, convogliandole nei tanti paradisi artificiali (sesso, alcool, consumo a debito) deviando i più da ogni impegno pubblico. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, la politica e i suoi mandanti economici e finanziari sono i beneficiari del nostro disinteresse e del nostro stesso disprezzo. Se il sessanta per cento non vota, tanto meglio, poiché sarà la minoranza, in cui i più attivi e motivati saranno sempre i clienti del potere, a decidere per tutti.
Intanto, le statistiche confermano quello che vediamo con i nostri occhi: i poveri sono triplicati in cinque anni e l’insicurezza avanza. Incertezza del futuro, radicato timore che i figli staranno sempre peggio dei padri, paura della criminalità. Affermano che i reati denunciati sono diminuiti dell’8 per cento, ma la convinzione è che, molto semplicemente, furti, truffe, piccoli e meno piccoli ricatti, persino le rapine non siano neppure più denunciati. Tanto, l’impunità dei farabutti è statisticamente molto più probabile che il loro arresto. Lo ha capito persino Belén, l’icona dei giovani di successo nonostante non sappia fare nulla di specifico, che lamenta come un suo video pornografico giovanile continui a correre in rete nonostante denunce e richieste di ritiro.
Il rancore civico è pressoché generalizzato, ma non succede nulla. Evidentemente, prevale l’accidia, il sentimento che “tanto non è capitato a me”, e poi il buonismo torrenziale e trasversale. Tutti vogliamo punire ladri, rapinatori, assassini e mascalzoni di ogni tipo ed etnia, ma, al dunque, prevale la giustificazione, l’inclinazione a non calcare la mano, da non pochi pulpiti il perdono pressoché obbligato. Insomma, il rancore c’è, ma rimane in superficie, a volte affiora, ma più spesso è come un fiume carsico che scorre sottoterra, non si vede e, generalmente, non va oltre la deprecazione e la negazione. L’altro grande problema, che né l’Istat né il Censis rilevano come fatto nazionale è che il nostro è diventato il popolo del no.
Forse uno dei motivi è l’invecchiamento della popolazione, che rende sospetti e sgraditi i cambiamenti, fastidiose le innovazioni, ma in Italia si nega ben più di quanto si affermi. Osserviamo la cronaca: Taranto e la regione Puglia fanno causa al governo per l’Ilva, rendendo più difficile il già dubbio destino dei migliaia di lavoratori e della siderurgia nazionale. Diciamo no ai rigassificatori ed alle prospezioni petrolifere, ci opponiamo alle centrali elettriche, ma nessuno è disposto ad accettare le conseguenze della scarsità energetica. Vogliamo aeroporti, autostrade e linee ferroviarie veloci per sostenere il nostro nomadismo, ma imperano i No-Tav e i nemici di nuove strade; imploriamo più lavoro, ma che sia dietro l’angolo, comodo e tutti a casa, in birreria e discoteca alle 17, sabati e domeniche sacre (al consumo, ovviamente).
La vera colpa della politica, il motivo per cui merita il discredito popolare è dire sempre sì ai capricci ed anche alle follie, giacché portano voti. Le classi dominanti diventano aristocrazie quando sanno educare, a partire dall’esempio. L’esempio dei capitani d’industria, dei politici, dei finanzieri, degli uomini di spettacolo, di tutti coloro che a vario titolo la platea mediatica chiama Vip è desolante: corruzione, degrado familiare, rincorsa al successo economico immediato, cinismo, indifferenza alle ragioni altrui. Gli esempi, buoni o cattivi, in genere vengono seguiti dal gregge e, scrisse Marcello Veneziani, i contemporanei seguono i vizi con lo stesso conformismo con cui in altri tempi accettarono le virtù.
Oggi sembra obbligatorio dire di no a tutto, specialmente se comporta sacrificio, responsabilità, impegno, tempo. Non è tutta colpa nostra, ci hanno persuaso dall’alto all’inversione generalizzata dei valori. Un intellettuale finto marxista, in realtà cagnolino da guardia del sistema “da sinistra”, l’acclamato Slavoj Zizek scredita così l’impegno sociale, il non conformismo, la stessa speranza: “il vero coraggio non sta nell’immaginare l’alternativa, ma nell’assumere le conseguenze che non è chiaramente discernibile un’alternativa.” Introiettare, eternizzare la sconfitta, la lotta politica, prendere atto che le idee non hanno senso alcuno, se non nell’abisso della disperazione. Pare un elogio dell’accidia, un omaggio postumo a Oblomov.
All’opposto, bisogna fare del rancore un elemento di cambiamento, una leva per modificare in positivo una società vecchia che fa del nuovo obbligatorio la propria falsa bandiera. Per prendere la rincorsa, spesso bisogna tornare indietro, ai principi antichi, non lasciare che le nostre azioni siano governate dall’individualismo sordido o dall’invidia sociale. Non si può essere personalmente soddisfatti e nella sfera sociale negativi, rancorosi, carichi di disprezzo e sfiducia. E’ vero e proprio sdoppiamento della personalità, e poi l’uomo incapace di rabbia è incapace anche di bontà, altruismo, slancio. Il nostro presente rancore, la testa scossa per dire sempre di no sono il primo motivo per rassegnarsi al declino. Il rancore fine a se stesso è il vicino di casa dell’invidia, che, spiegava Quevedo, “va tan flaca y amarilla porque muerde e no come”, cammina tanto magra e gialla perché morde e non mangia.
ROBERTO PECCHIOLI
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