«Voi non ve ne accorgete, ma state subendo una programmazione. Ora, però, dovete decidere a quanta della vostra indipendenza intellettuale siete disposti a rinunciare». L’appello proviene dall’ex vicepresidente di Facebook Chamath Palihapitiya che in un intervento alla Graduate School of Business di Stanford si è scagliato contro i social network, spiegando di sentirsi «tremendamente in colpa» per aver contribuito a creare degli strumenti che stanno «distruggendo il tessuto sociale» (http://www.universityequipe.com/parole-ex-dirigente-facebook).
L’analisi di Palihapitiya non è nuova né isolata ma è interessante che venga proprio da colui che ha contribuito allo sviluppo di Facebook.
L’analisi di Palihapitiya non è nuova: Evgeny Morozov, per esempio, ha ampiamente spiegato nelle sue opere come Google, Amazon, Facebook, Twitter, ecc. sarebbero soltanto l’incarnazione di una nuova forma di capitalismo mascherato da rivoluzione digitale e l’ennesima versione dell’accentramento di potere economico e politico nelle mani di pochi.
Lo scrivo e lo ripeto da anni: i poteri che spingono per la globalizzazione stanno abbattendo il vecchio mondo e sulle sue macerie hanno bisogno di “creare” un nuovo cittadino che sia facilmente malleabile e controllabile. Un cittadino che sia senza identità, che abbia rinunciato alla sua personalità, al suo spirito critico, alla privacy, che sia sempre “connesso”. Un cittadino che sia capace di abbracciare il progresso e nel suo nome di accettare qualunque provvedimento, abdicando alla sua stessa umanità. Un Uomo che si fa macchina, che sposa il virtuale preferendo paradisi artificiali alla vita reale fatta anche di dolore, fatica e disperazione.
Per evitare questo scenario distopico, l’entusiasmo per la tecnologia dovrebbe accogliere anche le critiche sulle possibile derive del progresso tecnico, in modo da associare allo sviluppo una controparte etica che miri al benessere collettivo e non meramente al controllo sociale e al profitto di pochi.
L’analisi di Palihapitiya non è isolata: solo un mese fa anche Sean Parker, cofondatore di Napster ed ex partner di Zuckerberg, si era scagliato in una conferenza a Philadelphia contro i social network, dichiarando che «sfruttano le vulnerabilità psicologiche delle persone». Parker aveva focalizzato l’attenzione sui possibili danni che potrebbero insorgere dall’uso smodato dei social da parte dei bambini. Da anni, infatti, si parla delle controindicazioni che la tecnologia può avere sui più piccoli: le ricerche sulla sovraesposizione tecnologica su un cervello in via di sviluppo parlano infatti di ansia, irritabilità, depressione infantile, disturbi dell’attaccamento, deficit di attenzione, autismo, disturbo bipolare, psicosi e comportamento problematico (http://www.huffingtonpost.it/cris-rowan/10-motivi-per-cui-i-dispositivi-portatili-dovrebbero-essere-vietati-ai-bambini-al-di-sotto-dei-12-anni_b_9124584.html). Per questo si parla sempre più di “dipendenza” dai dispositivi portatili come se si trattasse di una vera e propria “droga”: effetti che andrebbero ulteriormente indagati e affrontati. La soglia di attenzione è sempre più bassa e ne consegue una diminuzione della concentrazione, della memoria e della capacità critica. Siamo bulimici di attenzione, stiamo diventando incapaci di vivere nella realtà quotidiana fatta di persone in carne e ossa e di rapporti sociali che vadano oltre un like. Gli effetti di questa rivoluzione antropologica li potremo osservare compiutamente solo nei prossimi anni.
Dovremmo anche riflettere sulle nostre responsabilità di adulti: l’abuso tecnologico che le nuove generazioni stanno subendo è una forma di compensazione dovuta alla mancanza di attenzione che proprio gli adulti avrebbero dovuto donare loro. Si tratta un surrogato che può generare dipendenza e questa a sua volta danni permanenti.
Parker e Palihapitiya sono stati coraggiosi a denunciare due risvolti opachi di quella rivoluzione digitale che hanno contribuito ad avviare: da un lato il rischio di essere manipolati, “schedati” e programmati, dall’altra gli effetti collaterali di un’esposizione eccessiva tra i più giovani e le ricadute sulla collettività. Lo ripeto: ciò non significa farsi portavoce di un pensiero oscurantista e reazionario, ma promuovere una nuova visione “etica” che rispetti la persona umana e i rapporti “reali”. Il fatto che lo sviluppo tecnologico sia “inevitabile” non significa che debba essere abbandonato a se stesso senza una guida e dei limiti: non tutto ciò che è possibile realizzare deve essere per questo realizzato. Possiamo orientare la ricerca in senso etico e sostenibile.
Stiamo correndo verso una deriva post-umana in cui i rapporti sociali tendono a corrompersi, in cui le persone rischiano di trovarsi “drogate” dall’abuso dei social, dipendenti dai like e dai commenti degli altri utenti, finendo spersonalizzate e scollate dalla realtà “vera”. I social hanno abbattuto molte barriere, avvicinano ma al contempo allontanano da ciò che è reale, diffondendo un’idea di perfezione virtuale che soprattutto i più giovani tendono a emulare finendo inevitabilmente sfrustrati.
I social non hanno solo illuso di poter offrire una “community” con un senso irreale e irraggiungibile di perfezione, ma hanno anche portato al costituirsi di un odio “democratico” in cui ognuno si sente libero e legittimato (in “diritto” quindi) di manifestare il proprio dissenso (o più delle volte acritico e di pancia) arrivando a insultare e minacciare gli altri: da qui il fenomeno degli haters e del cyber bullismo. È come se non esistesse più un filtro tra il pensiero/emozione e ciò che viene trascritto: in questo caso, però, la “digital warfare” è solo una scusa per arrivare a censurare il web e le voci alternative, introducendo il reato d’opinione e ulteriore controllo tecnologico. Il problema non è però dei social network in sé, ma nostro: essi sono un mezzo, siamo noi che abbiamo disatteso la capacità di saperli usare al meglio, dimostrandoci eticamente immaturi per gestire la rivoluzione digitale.
La virtualità ci rende più fragili e soli e rischia di risucchiarci in un vortice fatto di solitudine e sorveglianza: ciò non significa che si debba rinunciare alla tecnologia e votarsi all’ascetismo, ma dovremmo divenire più consapevoli e responsabili dei mezzi che abbiamo e riappropriarci non solo del senso critico ma anche di quello spirito etico che dovrebbe supportare l’innovazione. Affinché la tecnologia sia pensata in funzione e per il bene dell’uomo, per non rischiare altrimenti di finire schiavi delle macchine che abbiamo sviluppato.
E. Perucchietti
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