Ad essere debellata, subito dopo il
Coronavirus, dovrebbe essere l’Unione Europea
di Caterina Betti - 13 Marzo 2020
Mentre gli italiani si apprestano ad
affrontare la chiusura delle attività commerciali, senza dubbio l’atto più
estremo dal dopoguerra, anticipato da rocambolesche fughe di bozze sulle neo (e
già antiquate) zone rosse, improvvidi toni rasserenatori e accuse agli
operatori sanitari sul non rispetto dei protocolli, mentre si sprecano le
riverenze ai benefattori influencers che invitano a raccogliere donazioni per
gli ospedali senza perder occasione per mostrarsi come nababbi caritatevoli,
mentre i parlamentari grillini rigurgitano dal loro cilindro il coniglio del
microcredito per la terapia intensiva e le Sardine, dopo cultura, baci e
abbracci in piazza, paiono esser finite sotto salamoia, non ci resta (da ignoranti
in campo medico) che guardare al dopo CoVid-19 con ragionevole pessimismo
cosmico, nei giorni in cui si disquisisce sulle misure economiche da adottare
il prima possibile e si avvia un indegno dialogo con le istituzioni europee.
Crisi programmata e abbandono del moribondo
I danni pre-pandemia li indichiamo per
dovere di cronaca e per avere chiaro il quadro per il quale i medici a breve si
troveranno costretti, ormai al lumicino per strutture, posti letto,
attrezzature e quantità del personale, ad operare scelte da terzo mondo quali
selezionare chi curare e chi no. 37 miliardi € tagliati al Servizio Sanitario
Nazionale, carenza di almeno 8 mila medici e 35 mila infermieri, circa 2 mld
€ tagliati agli operatori sanitari, drastica riduzione del rapporto
di posti letti per 1.000 abitanti, dai 3,9 ai 3,2 in 10 anni, già
abbondantemente al di sotto della media europea.
Ad essere da terzo mondo effettivamente non
sono le conseguenze illustrate, ma la causa di tale penuria. Non è un mistero,
anche se in simili momenti di frenesia si tende a tacere per emergenziale unità
nazionale, che lo sfacelo della sanità pubblica derivi
da sottoscrizioni ad impegni come l’Europact (improntato
sulla riduzione della spesa pubblica per il welfare) e da imposizioni di
bilancio restrittive espressamente contrarie a quanto la Costituzione
sottintende al fine (esplicito) di tutelare il diritto inviolabile, in quanto «primario e
fondamentale», alla salute dell’individuo e della collettività. Nell’era in cui
la credibilità agli occhi dei partner europei figura tra i boni mores centrali,
agire sulla retta via dei conti in ordine tramite la riduzione della spesa
pubblica (anche in campo sanitario), indicata dagli optimates europei,
finisce per surclassare ogni diritto fondamentale. In favore dell’aspirazione
ad ottemperare ai doveri da vincolo esterno si è abdicato da tempo
all’adempimento delle ordinarie quanto imprescindibili funzioni statali di cui
oggi i fanatici liberisti del non interventismo economico si accorgono di
necessitare, riscoprendosi improvvisamente pro-deficit tardivi per cause di
forza maggiore e crisi per essi inaspettate. La storia della cicala e
della formica. Ormai anche i lettini delle rianimazioni sanno che grazie ad una
maggior spesa, concentrata sull’incremento dei posti in terapia intensiva,
sulle specializzazioni dei medici e sulle strutture ospedaliere, si sarebbe
potuto fronteggiare una simile evenienza critica in maniera se non risolutiva,
vista l’alta ospedalizzazione data dal coronavirus, quantomeno più serena.
Insomma, lo Stato manca come ossigeno nel
sangue. Sillogismo infelice con la malattia, vero, ma rende bene l’idea di una
programmata crisi da assenza statale che, andatasi a sommare a quella
strettamente sanitaria, in questi giorni viene semplicemente disvelata agli
occhi dell’opinione pubblica a scapito di vite e di estrema difficoltà per i
lavoratori nel SSN. Vale la pena far notare quanto la competenza sanitaria europea si dilegui e scompaia
all’occorrenza, mentre nel momento in cui si debba porre la condicio
sine qua le procedure d’infrazione fanno capolino e si traducono nel
dover tagliare risorse dedicate ai capitoli di spesa per la sanità (tra gli
altri), allora eccome se quest’ultima diventa affare europeo su cui metter
parola, o vincolo; la tecnocrazia blu stellata ha la caratteristica di lanciare
il sasso e nasconder la mano, intromettersi sui temi di “competenza nazionale”
(come dichiarato più volte in questi giorni), decretando, in base ad arbitrarie
conclusioni sull’indebitamento dello stato membro sotto esame, austerità
drastica in grado di gambizzare un comparto essenziale e, nel caso italiano, un
modello elogiato su scala internazionale. Il risultato è quello di aver indotto
un intero paese alla soglia della morte e di averlo abbandonato lì dov’era.
Ad
essere debellata, subito dopo il Coronavirus, dovrebbe essere l’Unione Europea,
reale genesi di questa crisi programmata, che nelle sue direttive ha predisposto
scientemente, anno dopo anno, lo smantellamento del SSN, portandolo a livelli
di inaudita esiguità… se solo non vi fosse la vigente Scientology mediatica e
culturale dedita a genuflettersi al cospetto del suddetto vincolo esterno che
schiaccia quelle che vengono presentate come antistoriche reminiscenze di
democrazia costituzionale.
Tutto chiuso. Anche il
MES.
È ufficiale: il testo dell’ultimo di tre
decreti firmati da Giuseppe Conte stabilisce la chiusura (non esattamente
totale) delle attività commerciali. C’è un ulteriore chiusura, in aggiunta a quella dei confini orientali nei nostri
confronti: la negoziazione del MES, o Fondo salva stati, per il quale
congiuntamente Movimento 5 Stelle e Lega, ai tempi del loro governo di
coalizione, avevano chiesto lo stop. Un mese fa, dopo il valzer cautelativo
della “logica di pacchetto” condotto da Giuseppi, era emerso il reale stato
dell’arte, con la riforma del fondo chiusa e solo dettagli tecnici da
perfezionare, poiché i rappresentanti francesi (va specificato) sono
stati gli unici a sollevare l’annosa questione delle single-limb CACs da
allegare ai titoli di stato.
Nonostante la formale ratifica della riforma
fosse prevista per aprile, l’Eurogruppo, il quale per la sua natura informale si è chiamato al di fuori del
concetto di trasparenza (presupposto di per sé quantomai ostile
per abbinare ai nostri titoli di stato delle clausole di ristrutturazione del
debito sovrano), pone come tema di discussione nella prossima seduta del 16
marzo la finalizzazione del MES in vista della firma conclusiva. Al primo posto
dell’ordine del giorno. Con un’emergenza sanitaria in Italia e l’espansione
consistente della pandemia nel resto d’Europa; il CoVid-19 e le relative misure
economiche sono al terzo posto, giusto prima delle varie ed eventuali.
La
priorità assoluta per l’Unione Europea non è il benessere della “grande
famiglia europea”, è il MES. Nato e chiuso nel sotterfugio, con il
meschino benestare di rappresentanti (di chi e soprattutto di quali interessi?)
timorosi ora più che mai di non vedersi autorizzare briciole di concessioni sul
bilancio. Quale momento migliore di questo, una crisi psicologica, oltre che sanitaria,
per cedere quel che resta della sovranità? Prendendo in prestito le parole di
Churchill, lo sottolinea il Presidente del Consiglio quanto sia “la nostra ora più buia” e lo ribadisce Gualtieri
in audizione alla Commissione bilancio, in nome del clima di unità nazionale,
ora non è tempo di strumentalizzare, né farne una “polemica politica”. La
viruscrazia, sfruttata a mo’ di instrumentum regni dal
dispotismo eurocratico, ha declassato a polemicuccia il dibattito politico e la
contrarietà ad uno dei mezzi coercitivi della “cassetta degli attrezzi di cui dispone la UE per
affrontare le crisi”, che all’Italia costerà, lo ricordiamo,
almeno 125 mld €. Ad ogni modo, ora o più avanti (qualora in Eurogruppo si
decidesse all’ultimo di rimescolare le carte delle priorità), sarebbe
sufficiente evitare di firmare, dal momento che non vi è alcun obbligo a carico
dell’Italia, se non quello autoimposto nella speranza senza garanzie di vedersi
concedere della flessibilità (irrisoria) da figliastri. Ancora una volta ecco
il filone conduttore della vita in Eurozona, pandemia o meno: il vincolo
esterno, che poi non è altro che un ricatto.
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