di Livia Di Vona - 16 Marzo 2020
In questi giorni di confinamento nella quiete domestica, in cui un virus insidioso ci costringe a riscoprire quel bene perduto del vivere con lentezza, i social sono un pullulare di retorica: “Il coronavirus ci insegna che non esistono i confini”. Le misure adottate a livello planetario per il contenimento del COVID-19, in realtà, evidenziano proprio una reviviscenza del concetto di “confine” che si basa su questa semplice asserzione: meno ci muoviamo, meno il virus dovrebbe propagarsi. Un sacrificio richiesto a tutela della salute pubblica, in vista della cura dei soggetti che per deficit immunitari rischiano più degli altri e per non infierire troppo su un sistema sanitario al collasso. “Stiamo lontani oggi, per essere più vicini domani” recitano accorati personaggi di sport e spettacolo dal tubo catodico.
Al di fuori dell’emergenza sanitaria in atto, potremmo provare a fare un esercizio che trascini dal piano meramente retorico -quindi emotivo- a quello della realtà questo principio intriso di buoni sentimenti, per stanare la contraddizione che ne inficia la bontà. Scopriremmo, solo per fare un esempio, che una persona genuinamente convinta che i confini siano solo nella mente di chi si chiude all’altro, è la stessa persona che ha preso parte, almeno una volta nella sua vita, a qualche manifestazione di piazza pro Palestina, al grido di “la Palestina ai palestinesi.” Il significato sotteso a quest’ultimo slogan ci dice che: esiste una terra specifica segnata da un confine che spetta di diritto al popolo autoctono che la abita e che da decenni è costretto a subire gli insediamenti abusivi israeliani. Potremmo definirlo quindi uno slogan “sovranista“. La persona in questione non è mai turbata dal dubbio di essere contraddittoria, perché la convizione di trovarsi sempre dalla parte dei Giusti funziona come autoassoluzione di limiti morali e cognitivi. Un colpo di spugna che confina -questo si- solo gli altri nei propri limiti, mentre il nostro eroe, con un piede in due mondi, uno fatto di unicorni e arcobaleni, l’altro di realtà, vaga sperduto nelle lande desolate di un’uguaglianza che fa della diversità una fuorilegge. L’unità del genere umano non ha niente a che fare con l’assenza di confini; il rapporto tra genotipo e fenotipo ci suggerisce che l’umanità si compone di popoli che, nel corso della storia, influenzati anche da caratteristiche specifiche del territorio in cui si sono costituiti in comunità, hanno sviluppato un modo peculiare di stare al mondo, un cultura propria che finisce per esaltare la comune dignitàdi dirci umani nella particolarità di ciascuno. Il confine non è negazione dell’incontro -a meno che non lo si usi con questo specifico fine-, è affermazione anche di un principio di giustizia; quando Ulpiano gettava le fondamenta della civiltà giuridica nei tre principi honeste vivere, alterum non laedere, unicuique suum tribuere, con quest’ultimo stabiliva un criterio per soddisfare questo principio. A ciascuno il suo non significa, infatti, a ciascuno lo stesso, ma indica che la domanda di giustizia dell’uomo trova soddisfazione nel riconoscimento di ciò che gli è proprio. Se scendiamo in piazza a gridare la Palestina ai palestinesi, stiamo dicendo che quel popolo ha il diritto di abitare la sua terra, senza subire ingerenze. Ai palestinesi, se il ragionamento poc’anzi proposto fila, ciò che è loro: la Palestina. Se pensassimo di andare da loro cinque minuti dopo a dire, con la stessa partecipazione emotiva, che i confini non esistono, come reagirebbero?
La saggezza popolare ci ricorda che la strada verso l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Forse dovremmo vegliare affinché la domanda di giustizia per tutti gli esseri umani non si trasformi per paradosso nella sua negazione, solo per il gusto di appuntarci sul petto una medaglia inutile.
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