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sabato 21 marzo 2020

Guerre batteriologiche e guerre di greggio


L’emergenza Coronavirus sta assumendo sempre più i connotati di una guerra ibrida ad ampio spettro: se in Europa la pandemia si è presto tramutata in assalto speculativo-finanziario, sul mercato del greggio si è evoluta in un tracollo dei prezzi dovuto all’apparente dissidio tra Russia ed Arabia Saudita. Vero obiettivo russo è spazzare via l’industria del petrolio di scisto americana su cui si basa l’autosufficienza energetica americana. Visti il rapido deteriorarsi della situazione internazionale, è difficile che gli USA rinuncino al petrolio di scisto: già si parla di un embargo al petrolio russo e forse a quello saudita. Il mondo si muove sempre meno secondo le logiche del libero mercato.

Mercato mondiale in dissoluzione

Più le settimane, passano più l’emergenza Coronavirus mostra la sua vera natura di attacco bioterroristico con finalità squisitamente geopolitiche: l’emergenza sanitaria è infatti sopravanzata, giorno dopo giorno, da una serie di “effetti collaterali” che costituiscono le vere ragioni dietro l’ offensiva angloamericana. Iniziata come attacco focalizzato contro la Cina, così da mandarne in stallo l’economia e tentare di destabilizzarne il sistema politico, l’epidemia è presto evoluta, grazie alle dinamiche messe in moto dalla malattia infettiva, in una più articolata offensiva contro l’intera economia globalizzata, in un certo senso “completando” la guerra commerciale sino-americana che aveva occupato buona parte del 2019: come l’Inghilterra di inizio Novecento era stata messa in allarme dall’industria tedesca sempre più competitiva ed agguerrita, così gli Stati Uniti si sono resi conto di stare progressivamente perdendo il vantaggio tecnologico sulla Cina (il 5G è stato probabilmente la spia di allarme) ed hanno perciò sferrato un attacco all’intera filiera produttiva mondiale, ruotante proprio attorno all’ex Impero Celeste. Pechino ha retto egregiamente il colpo, circoscrivendo e debellando l’epidemia in poche settimane, ma si trova ora a fare i conti un’economia mondiale più caotica che mai: la ripartenza non potrà che dipendere da un potenziamento dell’enorme mercato interno. I sogni anglosassoni di una crisi finanziaria della Cina ignorano deliberatamente la sua struttura finanziaria: senza alcun rilevante debito verso l’esterno, con uno yuan sotto stretto controllo delle autorità, Pechino è quasi autarchica dal punto di vista finanziario e si può affidare al “circuito monetario” per rilanciare l’economia, proprio mentre la pandemia, passata l’Oceano, raggiunge infine il luogo da cui era partito l’attacco biologico: gli Stati Uniti.
La situazione è molto più fosca in Europa, dove gli angloamericani sono ricorsi alla classica “peripheral strategy” delle ultime due guerre mondiali: attaccare la periferia del continente per risalire verso il centro. L’attacco si è perciò concentrato sull’Italia (attualmente principale “focolaio” europeo con circa 3.000 deceduti), “ventre molle” dell’eurozona, col chiaro intento di portare al collasso l’economia e, tramite il default del Paese, affondare l’intera Unione Europea.  Si noti che, nella nostra analisi geopolitica di fine 2019 avevamo previsto un simile sviluppo, pur ignorando che nei primi mesi del 2020 sarebbe scoppiata la pandemia con annesso terremoto finanziario. L’operazione, come abbiamo sottolineato, è facilitata dalla gestione del nuovo governatore della BCE, Christine Lagarde, che, anziché interessarsi della stabilità dell’eurozona, pare voglia assecondare la strategia di Washington, dove ha lavorato per otto anni come capo dell’IMF. Come facilmente prevedibile, il Coronavirus, oltre che scatenare una tempesta sul mercato azionario ed obbligazionario europeo, ha duramente colpito le colonne portanti dell’Unione Europea: la libertà di movimento delle persone tra i diversi Paesi è stata momentaneamente sospesa e c’è la tendenza a procedere in ordine sparso anche per gli inevitabili salvataggi delle imprese strategiche. L’Unione Europea, a differenza della Cina, paga sia il prezzo di non essere uno Stato centralizzato ma un organismo sovranazionale, sia di essere diretta da personale che sembra più attento agli interessi angloamericani che a quelli continentali. Ciò non toglie che un suo collasso caotico paralizzerebbe l’Europa per diversi anni e non sono escludili neppure sbocchi di natura militare.
Colpendo l’economia globalizzata nel suo complesso, era però inevitabile che l’emergenza Coronavirus si tramutasse presto in una guerra ad ampio spettro, senza risparmiare nessun ambito né settore: tipico, a questo proposito, è la “guerra del greggio” che è esplosa nelle ultime settimane, parallelamente al precipitare della situazione in Italia ed in Europa. La crisi innescata dalla pandemia ha causato una contrazione dei consumi di petrolio senza precedenti: dai 60$ dollari al barile di inizio anno si è passati ai 45$ dollari di inizio. La riunione dell’OPEC a Vienna del 4 marzo avrebbe dovuto attuare una serie di tagli alla produzione per contenere la caduta del prezzo: invece è accaduto esattamente l’opposto. Russia e Arabia Saudita hanno apparentemente “rotto” l’alleanza stretta nel 2016, alleanza che aveva consentito di frenare la caduta dei prezzi dovuta all’irruzione del petrolio di scisto americano e canadese, e hanno stabilito di riversare sul mercato tutto il greggio producibile: l’effetto è stato un ulteriore tracollo del prezzo del barile, che ha toccato il 18 marzo il prezzo di 20$ al barile, un terzo rispetto al prezzo di inizio anno. La mossa, concepita dai russi e supportata dai sauditi (e gradita dai cinesi, cui serve un’energia a buon mercato per rimettere in moto la loro macchina industriale), mira proprio ad affondare l’industria del petrolio di scisto americana fiorita dal 2010 in avanti, così da scaricare sugli Stati Uniti i danni generati al settore energetico dall’emergenza Coronavirus: l’industria del petrolio di scisto è anti-economica sotto i 35$ al barile ed il precipitare dei prezzi rischia di infliggere un colpo durissimo ad un settore che, complessivamente, vale l’8% del PIL americano.
Ma c’è ben altro, la crisi dello “shale oil” americano mina alle fondamenta la strategia di sicurezza energetica americana, che si era basata proprio sul petrolio di scisto per raggiungere “l’autarchia” e svincolarsi dai produttori mediorientali: da qui la reazione scomposta di Washington, dove, dopo il collasso di questi ultimi giorni, si sono alzate addirittura voci a favore di un embargo ai danni della Russia o di nuovi dazi al petrolio straniero: in sostanza si tratterebbe di conservare “l’autarchia energetica” scaricandone il costo sul consumatore finale. I produttori di scisto americano sarebbero mantenuti sul mercato, anche se economicamente inefficienti, grazie al divieto di importate greggio straniero: un dato che conferma come l’economia, persino nei “liberali” Stati Uniti, stia passando ormai definitivamente in secondo piano rispetto a priorità militari-strategiche. Il mondo post-Coronavirus risponde sempre meno alle logiche del libero mercato, e sempre più a quelle geopolitiche: in Europa si tarda ancora a capirlo.

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