«T’amo, pio spread». Se fosse nostro contemporaneo, il buon Carducci probabilmente non si sognerebbe mai di trasformare il soggetto del suo genio, portando dai campi ai palazzi della finanza la divina musa della Poesia. Eppure noi lo amiamo tanto lo spread, e non perché fa roteare attributi ben lontani dagli occhi bovini del bove carducciano. 
Compagno inseparabile della nostra giovinezza, il differenziale del tasso di rendimento tra i bund tedeschi e i btp italiani a 10 anni anima le vite e la routine di milioni di italiani da quasi un decennio: quanta acqua è passata sotto i ponti, da quell’ormai lontana estate del 2011 in cui un termine straniero iniziava a divenire sempre più presente nei media. E più acquisiva notorietà e più aumentava, fantasma calato su un Belpaese ancora intento a spettegolare sui bunga bunga del sempreverde Berlusca. Che perfomance, allora! Da agosto a novembre, in un crescendo rossiniano, sfondò quota 500 costringendo B. a una precipitosa staffetta con il paludato Mario Monti, curatore fallimentare travestito da economista mainstream. L’Italia stava per precipitare sull’orlo del baratro, costretta dalla durezza del vivere a cambiare diametralmente rotta dagli anni allegri di tv e donnine: tirare la cinghia per tirare il collo allo spread. Per salvare la Patria nessun sacrificio è troppo.
Mario Monti, al Quirinale, presenta il nuovo Consiglio dei ministri (2011)
Tutti ricordiamo il FATE PRESTO a titoli di scatola offerto gentilmente da Confindustria sul suo quotidiano in quel grigio novembre. Nessuno però rammenta cotanta preoccupazione nell’estate degli Europei d’Ucraina e Polonia, quando accanto alle prodezze degli azzurri il termometro segnava di nuovo il limite dei 500 punti: anche al Sole spettava il diritto di vedere le partite in pace… 
Doveva intervenire un altro Mario, che whatever it takes intervenne per salvare la baracca dell’euro dalle acque procellose della speculazione. Occorreva capire che evidentemente più che della bella vita mediterranea, agli speculatori interessasse prezzare il rischio di rottura dell’eurozona e il relativo scorno dovuto alla ridenominazione dei titoli italiani in nuove lire.
Ma in fondo i grandi amori sono spesso inspiegabili, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Da fine 2012 fino ad aprile 2018 la nostra relazione conobbe infatti una pausa: sì, se ne parlava ancora in tv, ma di quelle performance stellari non restava che il ricordo, distrutte dalla ritrovata cre-di-bi-li-tà del governo italiano. In fondo sapevamo che il vero responsabile fosse Draghi e il suo acquistare a man bassa titoli di stato per salvare banche e bancherelle (non penserete certo che un simile gigante possa perder tempo appresso ai destini della casalinga di Voghera): però i media nostrani celebravano la ritrovata solidità nazionale, i successi del tris pd LettaRenziGentiloni erano sotto gli occhi di tutti, attiravamo addirittura migliaia di immigrati in forza della nostra nuova grandeur made in Nazareno.
Eppure la realtà è una zitella dispettosa che prima o poi acchiappa per i capelli la narrazione mediatica e la riduce a fettine. Venne il referendum del 4 dicembre, poi le elezioni del 4 marzo, infine il mese e mezzo di convulse trattative, il niet dell’inquilino del colle e quando oramai non ci credeva più nessuno il miracolo (o l’incubo): il governo gialloverde, Jamaica negli occhi dei panciuti lettori borghesi di Severgnini e Gramellini.
Noi sperammo, allora, che qualcosa potesse succedere. La finanza è generosa: ogni tanto socializza le perdite, ma vuoi mettere quando colpisce con la speculazione il libero risultato di democratiche consultazioni popolari? Fa più un trader che un intero pullman di Civati. Qualcuno sussurrò che Salvini e Di Maio volessero uscire dall’euro, altri giurarono e spergiurarono che Savonafosse un troll di Putin, altri ancora videro Borghi e Bagnai chiudersi in una tipografia al chiaro di Luna: i rumori del torchio erano inequivocabili. 
Mentre la Bocconi andava in tilt, riappariva il nostro grande amore. Dopo alcune bizze interlocutorie, tornato dalle vacanze lo spread ci ha fatto francamente sognare sfondando i 300 punti, tra lo stracciamento di vesti e lo stridor di denti dei nostri cantori. Ci sembra quasi di tornare adolescenti, fare un salto di sette anni e attendere fiduciosi un nuovo salvatore con in tasca l’immaginetta di Friedman e in testa l’esempio di Pinochet.

Alan Friedman a lezione da Giulio Sapelli
Come andrà a finire? Per quanto ci riguarda noi desideriamo ardentemente che lo spread arrivi a 1000, a 10000, financo a un miliardo! Cosa sono i numeri di fronte alla passione? Cos’è la razionalità economica, la certificata idiozia di un progetto di unificazione monetaria fallimentare, la distruzione della democrazia italiana, l’asservimento d’Italia a un losco ubriacone e un trozkista che fa rima con wc rispetto a uno strumento mitologico, invisibile e potentissimo, come sua maestà lo spread? Cosa possiamo pretendere noi, piccoli e insignificanti eredi di trenta secoli di Storia, normali e in fondo banali figli di un benessere conquistato con le unghie dai nostri padri e dai nostri nonni, di fronte all’Unione europea, il sogno distopico di un branco di burocrati infami e vili?
Potremmo finirla, riconquistarci il minimumche distingue lo Stato dalla colonia – sovranità monetaria, politica economica autonoma, nazionalizzazione dei settori strategici e del debito pubblico – e vivere finalmente in una normalità che è norma a Sidney e utopia a Roma. Liberarci per la terza volta in un secolo dallo straniero, attuare la Costituzione e provare finalmente a vivere da uomini. E a quel punto chi penserebbe più allo spread?