FINANCIAL TIMES: «CONTE LEGATO A UN FONDO DI INVESTIMENTO INDAGATO DAL VATICANO»
Ecco l'autonominato "avvocato del popolo". Almeno all'estero, sia pure con notevole ritardo si accorgono del conflitto di interessi del pentastelluto Conte Giuseppe, inquilino sempre più provvisorio di Palazzo Chigi. Lo scandalo del palazzo nel centro di Londra, in Sloane Avenue 60, comprato dalla segreteria di Stato vaticana utilizzando 200 milioni di dollari dell’obolo di San Pietro e ora al centro di un’indagine della magistratura del Papa, non smette di alimentare novità. Risvolti che adesso arrivano a tirare in ballo, via Financial Times, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per alcuni incarichi professionali avuti pochi settimane prima di essere indicato come primo ministro della coalizione Lega - Movimento 5 Stelle nell’estate del 2018.
Ecco l'autonominato "avvocato del popolo". Almeno all'estero, sia pure con notevole ritardo si accorgono del conflitto di interessi del pentastelluto Conte Giuseppe, inquilino sempre più provvisorio di Palazzo Chigi. Lo scandalo del palazzo nel centro di Londra, in Sloane Avenue 60, comprato dalla segreteria di Stato vaticana utilizzando 200 milioni di dollari dell’obolo di San Pietro e ora al centro di un’indagine della magistratura del Papa, non smette di alimentare novità. Risvolti che adesso arrivano a tirare in ballo, via Financial Times, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per alcuni incarichi professionali avuti pochi settimane prima di essere indicato come primo ministro della coalizione Lega - Movimento 5 Stelle nell’estate del 2018.
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Al riguardo, nella notte fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere che il presidente del Consiglio «è tranquillissimo» riguardo l’articolo del Financial Times su un presunto collegamento del premier al fondo di investimenti sostenuto dal Vaticano al centro di una indagine su un caso di corruzione.
Il legame tra Conte e l’investimento del Vaticano a Londra è proprio nel fondo che ha realizzato l’operazione, Athena Global Opportunities, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Come ha rivelato domenica 13 ottobre lo stesso Mincione in un’intervista, l’unico investitore del fondo Athena era la Segreteria di Stato vaticana, con 200 milioni di dollari, pari a circa 147 milioni dell’epoca, nell’ottobre 2013. Di quei milioni, circa 80 vennero utilizzati per rilevare il 45% del palazzo (a vendere le quote fu lo stesso Mincione) mentre il resto venne utilizzato per investimenti mobiliari, fondamentalmente in tre titoli di società quotate a Piazza Affari: Banca Carige, Tas (società che si occupa di pagamenti digitali), e Retelit, una società di telecomunicazioni che gestisce anche una rete in fibra ottica. È lo stesso Mincione a svelare al Corriere di aver scalato queste tre società — soprattutto Tas e Retelit — con i soldi del Vaticano.
Il legame tra Conte e l’investimento del Vaticano a Londra è proprio nel fondo che ha realizzato l’operazione, Athena Global Opportunities, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Come ha rivelato domenica 13 ottobre lo stesso Mincione in un’intervista, l’unico investitore del fondo Athena era la Segreteria di Stato vaticana, con 200 milioni di dollari, pari a circa 147 milioni dell’epoca, nell’ottobre 2013. Di quei milioni, circa 80 vennero utilizzati per rilevare il 45% del palazzo (a vendere le quote fu lo stesso Mincione) mentre il resto venne utilizzato per investimenti mobiliari, fondamentalmente in tre titoli di società quotate a Piazza Affari: Banca Carige, Tas (società che si occupa di pagamenti digitali), e Retelit, una società di telecomunicazioni che gestisce anche una rete in fibra ottica. È lo stesso Mincione a svelare al Corriere di aver scalato queste tre società — soprattutto Tas e Retelit — con i soldi del Vaticano.
Di fatto la segreteria di Stato è stato l’effettivo proprietario delle azioni fino al novembre del 2018, quando la transazione tra Mincione e il Vaticano non portò a una divisione delle attività: al Vaticano andò l’intero palazzo; a Mincione gli investimenti mobiliari più un conguaglio di 44 milioni di euro in contanti. È proprio quando Mincione, nella primavera del 2018, scala Retelit, candidandosi anche come presidente della società, che spunta il nome di Conte. È il Financial Times a ricordare il ruolo di Conte in questa partita, evidenziando come l’allora avvocato Conte a maggio di quell’anno emise un parere giuridico a favore di Fiber 4.0, una cordata di azionisti di Retelit capitanata al 40% da Athena, secondo il quale il voto dell’assemblea dei soci sulla nomina del consiglio di amministrazione avrebbe potuto essere impugnato dal governo usando il «golden power», cioè un potere di intervento dell’esecutivo su società considerate strategiche. Secondo l’allora avvocato Conte, Retelit avrebbe potuto finire sotto il controllo della cordata avversaria, composta dai tedeschi di Shareholder Value e soprattutto - e qui stava il rischio, secondo Conte - dalla società telefonica di Stato della Libia, Lybian Post Telecommunications (che era in realtà azionista da anni).
Sempre al Corriere, il 10 gennaio 2019 Mincione raccontò come fosse arrivato a Conte: «Noi abbiamo chiesto sul tema Retelit un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un’opinione che non andava nella nostra direzione. Quindi ci ha suggerito il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte, che non era ancora nessuno ma dopo l’opinione è diventato primo ministro. Uno deve pur lavorare, no? Io Conte non l’ho mai incontrato, non lo conosco, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori».
A vincere la corsa per il controllo di Retelit fu la cordata opposta a Mincione. Il 7 giugno il neonato governo Conte emanò il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Allora il governo stabilì che Retelit garantisse «la continuità del servizio e la funzionalità operativa della rete, assicurandone l’integrità e l’affidabilità, attraverso adeguati piani di manutenzione e sviluppo». In secondo luogo che doveva «assicurare» investimenti «che garantiscano lo sviluppo e la sicurezza delle reti», che la gestione della rete rimanesse in Italia e fosse messa in sicurezza, «tutte attività che — spiegò allora Retelit — vengono già regolarmente svolte dalla società».
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