Si stringe il bavaglio globale sull’informazione
Un articolo dell’autorevole settimanale inglese The Economist passa in rassegna a 360 gradi le molteplici minacce alla libertà di informazione e di parola, che aumentano in tutto il mondo. Se nei paesi non liberi il pericolo viene dai governi che perseguitano i giornalisti indipendenti e i dissidenti, nelle democrazie mature è il culto del politically correct e la difesa sempre più violenta delle minoranze deboli – o presunte tali – che si sta trasformando in una minaccia per chiunque osi esprimere opinioni non allineate. Tra i possibili strumenti per imbavagliare la libertà di parola è citato anche il diffondersi delle leggi contro l’hate speech, fenomeno difficile da valutare oggettivamente, che rischiano di trasformare qualsiasi critica in un reato perseguibile penalmente.
Sia negli stati democratici sia in quelli autoritari alzare la voce diventa sempre più difficile
Il 22 giugno in Etiopia si è verificato un presunto tentativo di colpo di stato. Il capo del personale dell’esercito è stato ucciso, così come il presidente dell’ Amhara, una delle nove regioni del paese. I cittadini comuni in Etiopia cercavano disperatamente di capire che cosa stesse succedendo. E poi il governo ha sospeso Internet. A mezzanotte, circa il 98% dell’Etiopia era offline.
“La gente riceveva notizie distorte ed era molto confusa su ciò che stava accadendo… in quel preciso istante non c’era alcuna informazione“, ricorda Gashaw Fentahun, giornalista presso l’Amhara Mass Media Agency, un ente di informazione statale. Lui e i suoi colleghi stavano provando a realizzare un resoconto degli avvenimenti. Invece di caricare file audio e video in digitale, hanno dovuto inviarli alla sede principale in aereo, il che ha causato un enorme ritardo.
L’anno scorso 25 governi hanno imposto blackout su Internet. Soffocare la connessione fa infuriare le persone e mette in ginocchio le economie. Tuttavia, gli autocrati ritengono che ne valga la pena, di solito per impedire che le informazioni circolino durante una crisi.
Questo mese il governo indiano ha chiuso Internet nel contestato Kashmir, per la 51esima volta quest’anno. “Non ci sono notizie, niente”, afferma Aadil Ganie, un cittadino del Kashmir bloccato a Delhi, aggiungendo che non sa nemmeno dove sia la sua famiglia, perché sono bloccati anche i telefoni. Negli ultimi mesi il Sudan ha chiuso i social media per impedire ai contestatori di organizzarsi, il regime del Congo ha disattivato le reti mobili in modo da poter truccare le elezioni di nascosto, e il Chad ha azzoppato i social media, per mettere a tacere le proteste contro il piano del presidente di rimanere al potere fino al 2033.
Lingue legate
La libertà di parola è dura da conquistare e facile da perdere. In Etiopia solo un anno fa era fiorita, durante il mandato di un nuovo primo ministro apparentemente liberale, Abiy Ahmed. Tutti i giornalisti in prigione sono stati rilasciati e sono stati aperti centinaia di siti web, blog e canali TV satellitari. Ma ora il regime ci sta ripensando. Senza una dittatura a contenerla, la violenza etnica è divampata. I fanatici hanno incitato alla pulizia etnica sui social media da poco resi liberi. Quasi 3 milioni di Etiopi sono stati cacciati dalle loro case.
L’Etiopia sta affrontando una vera emergenza e molti etiopi ritengono ragionevole che il governo metta a tacere chi sostiene la violenza. Ma durante il presunto colpo di stato il governo ha fatto molto di più: di fatto ha messo a tacere tutti. Come ha scritto Befekadu Haile, giornalista e attivista: “Nell’oscurità, tutto quello che succedeva è stato raccontato dal governo“.
Alcuni ora temono un ritorno ai giorni bui dei predecessori di Abiy, quando i blogger dissidenti venivano torturati. Il regime possiede ancora camionate di kit elettronici per spiare e censurare, molti dei quali acquistati dalla Cina. Sta inoltre progettando di rendere reato l’ “hate speech” (discorsi caratterizzati da forte aggressività e violenza, ndt), con una legge che potrebbe richiedere una sorveglianza di massa e un attento monitoraggio dei social media da parte della polizia. Molti temono che la legge verrà utilizzata per bloccare anche i dissidenti pacifici.
Secondo Freedom House, organizzazione che osserva le condizioni di libertà e democrazia nei paesi, la libertà di parola negli ultimi dieci anni è diminuita a livello globale. I regimi repressivi lo sono diventati ancora di più: tra quelli classificati come “non liberi” da Freedom House, il 28% ha stretto ulteriormente il guinzaglio negli ultimi cinque anni; solo il 14% lo ha allentato. I paesi “parzialmente liberi” hanno avuto le stesse probabilità di migliorare o peggiorare, ma i paesi “liberi” sono regrediti. Circa il 19% di questi (16 paesi) è diventato meno tollerante verso la libertà di parola negli ultimi cinque anni, mentre solo il 14% è migliorato (vedi mappa).
Questo è avvenuto per due ragioni principali. In primo luogo, i partiti al potere in molti paesi hanno trovato nuovi strumenti per sopprimere fatti e idee che li mettono in difficoltà. In secondo luogo, si sentono incoraggiati a usare questi strumenti, in parte anche perché il sostegno globale alla libertà di parola si è indebolito. Nessuna delle superpotenze del mondo ha intenzione di difenderla. La Cina censura spietatamente il dissenso in patria ed esporta la tecnologia per censurarlo all’estero. Gli Stati Uniti, un tempo sostenitori della libera espressione, sono ora guidati da un uomo che dice cose del genere:
L’idea che certe opinioni debbano essere messe a tacere è popolare anche a sinistra. In Gran Bretagna e in America gli studenti impediscono di parlare agli oratori che ritengono essere razzisti o transfobici, mentre gli attivisti su Twitter chiedono che sia chiuso l’account di chiunque violi un elenco di tabù in continua espansione. Molti radicali occidentali pretendono che, se qualcosa a loro parere è offensivo, nessuno debba essere autorizzato a dirlo.
I regimi autoritari, ovunque, concordano. Ma giudicare qualcosa “offensivo” è soggettivo, quindi le leggi sull’hate speech possono diventare strumenti elastici per criminalizzare il dissenso. A marzo il Kazakistan ha arrestato Serikzhan Bilash per “incitamento all’odio etnico”. Si era lamentato dell’incarcerazione di massa degli Uiguri in Cina, grande partner commerciale del Kazakistan. Il governo del Ruanda interpreta quasi ogni critica che gli viene posta come sostegno a un nuovo genocidio. In India sono state proposte nuove regole che richiederebbero che le piattaforme digitali blocchino tutti i contenuti illegali, un compito difficile se pensiamo che in India è illegale promuovere la disarmonia “per motivi di religione, razza, luogo di nascita, residenza, lingua, casta o comunità o qualsiasi altro motivo”.
Un modo per stroncare la libertà di parola è uccidere l’oratore. Almeno 53 giornalisti sono stati uccisi sul lavoro nel 2018, leggermente più che nei due anni precedenti, secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ ), un’organizzazione di controllo. Pochi degli omicidi sono stati catturati. Il paese più letale per i giornalisti è stato l’Afghanistan, dove ne sono stati uccisi 13. In un caso, un jihadista si è travestito da giornalista, in modo da mescolarsi e massacrare i primi reporter e medici ad arrivare sulla scena di un precedente attentato suicida.
Forse l’omicidio più sfrontato del 2018 è stato quello di Jamal Khashoggi, un critico del regime saudita. Una squadra di killer è sbarcata in Turchia su jet privati facilmente identificabili, ha guidato un’auto di lusso fino al consolato saudita di Istanbul e ha fatto a pezzi Khashoggi in territorio consolare. Chiunque abbia ordinato l’azione presumibilmente ha pensato che non ci sarebbero state serie conseguenze dal massacro di un collaboratore del Washington Post. Aveva ragione. Sebbene Germania, Danimarca e Norvegia abbiano bloccato le vendite di armi all’Arabia Saudita, Trump ha sottolineato che l’America rimarrà il “partner fisso” del regno.
Il 1° dicembre 2018 il CPJ ha contato più di 250 giornalisti in prigione a causa del loro lavoro: almeno 68 in Turchia, 47 in Cina, 25 in Egitto e 16 in Eritrea. Il numero reale è sicuramente più alto, dal momento che molti giornalisti sono detenuti senza accuse e senza nemmeno che lo si sappia. Tuttavia, il numero in Eritrea potrebbe essere inferiore, poiché quasi tutti sono stati tenuti in condizioni terribili da quando il presidente Issaias Afwerki ha chiuso i media indipendenti nel 2001, e alcuni probabilmente sono morti.
Piuttosto che rischiare la seccatura e la cattiva pubblicità di mettere i giornalisti sotto processo, alcuni regimi cercano di renderli docili intimorendoli. In Pakistan, quando gli ufficiali militari chiamano i giornalisti per lamentarsi di un articolo, questi in generale si piegano. Ahmad Noorani, un giornalista che ha osato scrivere del ruolo dell’esercito in politica, è stato coinvolto in un’imboscata da sconosciuti assalitori in una strada trafficata della capitale, Islamabad, e picchiato quasi a morte con un piede di porco.
In India i giornalisti che criticano il partito al potere, Bharatiya Janata Party (BJP), ricevono caterve di minacce sui social media dai nazionalisti indù. Se sono di sesso femminile, queste minacce possono includere lo stupro. I giornalisti sono spesso screditati: vengono diffuse le immagini delle loro famiglie, invitando la gente ad attaccarli. Barkha Dutt, una presentatrice televisiva, ha presentato una denuncia contro i troll che le avevano inviato minacce di morte e pubblicato il suo numero di telefono personale spacciandolo per quello di un servizio di escort. Quattro sospetti sono stati arrestati a marzo.
A volte le peggiori minacce contro i giornalisti indiani vengono anche messe in atto, dando così una credibilità agghiacciante a tutte le altre. Gauri Lankesh, un giornalista che spesso ha criticato il nazionalismo indù, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco fuori dalla sua casa nel 2017. I sostenitori del BJP hanno festeggiato. L’uomo arrestato per avere premuto il grilletto ha detto alla polizia che i suoi mandanti gli avevano detto che doveva farlo per “salvare” la sua religione.
L’intimidazione però non sempre funziona. Ivan Golunov, un giornalista russo, ha indagato sui funzionari della città di Mosca che acquistano in nero dimore milionarie e sugli agenti di sicurezza che entrano in affari con la mafia. Le sue storie erano poco conosciute, pubblicate su un piccolo sito web chiamato Meduza. Il 6 giugno la polizia si è impadronita di Golunov, lo ha legato in un’auto, lo ha portato in un edificio governativo, lo ha picchiato e ha affermato di avere trovato droga nel suo zaino. Il ministero dell’Interno ha pubblicato nove foto di droga sostenendo che era stata trovata nel suo appartamento, ma poi ne ha rimosse otto, ammettendo che erano state portate da altrove e affermando che erano state pubblicate per errore.
I sostenitori di Golunov erano convinti che quella delle droghe fosse solo una messa in scena. Con sorpresa delle autorità, la storia si è diffusa rapidamente su Facebook e Twitter: la Russia non ha nulla a che vedere con la capacità della Cina di sopprimere i post indesiderati sui social media. Gruppi di manifestanti sono scesi in strada per chiedere il rilascio di Golunov. I media stranieri hanno ripreso la vicenda, che ha oscurato il vertice di Putin con Xi Jinping, presidente cinese, in corso quella settimana. Un Cremlino imbarazzato ha ordinato la liberazione di Golunov. Quando la sua nuova indagine è stata pubblicata da Meduza, poche settimane dopo, è stata letta da 1,5 milioni di persone, enormemente di più del suo pubblico abituale.
Ultime notizie
Mentre le entrate pubblicitarie che servono a sostenere il giornalismo indipendente diminuiscono, molti governi hanno trovato più facile distorcere le notizie con i sudati soldi dei contribuenti. Il metodo più semplice è di pomparli nei media statali, che supportano ossequiosamente i partiti al potere. La maggior parte dei regimi autoritari lo fa. Cina e Russia vanno oltre, sponsorizzando i media globali che cercano di minare la democrazia ovunque. Tuttavia, il problema dei media statali, dal punto di vista di un autocrate, è che tendono ad essere noiosi.
Quindi un altro metodo è quello di utilizzare la pubblicità del governo per premiare la sottomissione e punire l’indipendenza. In molti paesi il governo è di gran lunga il più grande inserzionista, quindi i giornali e le stazioni televisive hanno il terrore di infastidirlo.
Un metodo più sottile è quello di intessere rapporti con imprenditori che dipendono dallo stato per concessioni o contratti, e spingerli ad acquistare media. A differenza dei normali imprenditori, questi non hanno bisogno delle loro società di media per realizzare profitti. I favori che le loro imprese di costruzione ricevono superano di gran lunga le perdite che subiscono gestendo emittenti televisive allineate. Di fatto, riescono spesso a danneggiare i loro rivali dei media indipendenti, esacerbando i disagi finanziari causati dal declino della pubblicità, da controlli fiscali aggressivi, da multe irragionevoli e via dicendo. Media indipendenti a corto di soldi sono ovviamente più economici da comprare e addomesticare per la cricca governativa.
Numerosi partiti al potere usano queste tattiche. L’India ne usa la maggior parte, così come la Russia e la Turchia. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, è accusato di avere promesso una regolamentazione favorevole a una società di telecomunicazioni, in cambio di una posizione favorevole su un sito web di proprietà della stessa società. A gennaio, il quotidiano più popolare del Nicaragua ha pubblicato una prima pagina bianca, per denunciare che le sue forniture importate di inchiostro, carta e altri materiali erano state misteriosamente sequestrate alla dogana, dopo che aveva pubblicato rapporti critici sul partito sandinista al potere.
Loschi traffici di questo tipo si sono insinuati perfino in aree considerate democratiche dell’Europa. Il partito al potere ungherese, Fidesz, ha usato denaro pubblico per dominare l’opinione pubblica. L’agenzia di stampa statale è stata riempita di leccapiedi e offre i suoi bollettini gratuitamente ai mezzi di informazione senza soldi. “Ricevi una notizia flash su [una nuova stazione radio rock indipendente], ma [è] totalmente propaganda governativa… perché è gratuita”, si lamenta un giornalista locale.
Il budget pubblicitario del governo ungherese è aumentato enormemente dal 2010, quando il primo ministro Viktor Orban ha preso il potere. La sua cricca ha acquistato emittenti e siti web precedentemente aggressivi. “È un processo inarrestabile“, afferma un giornalista indipendente. “Gli ungheresi sono abituati all’idea che le notizie online siano gratuite. Quindi [le aziende dei media] devono fare affidamento sul denaro dei loro proprietari. E molti degli imprenditori nella vita pubblica sono legati al governo.” L’anno scorso i proprietari di 476 società di media, compresi praticamente tutti i giornali locali in Ungheria, li hanno ceduti gratuitamente a una nuova megafondazione gestita da un amico di Orban. Privi di fondi, i giornalisti seri hanno difficoltà a fare il proprio lavoro. “È praticamente impossibile indagare anche sulle principali storie di corruzione, perché ce ne sono così tante“, afferma Agnes Urban di Mertek, organizzazione che vigila sui media.
Nel frattempo nelle democrazie mature il sostegno alla libertà di parola sta diminuendo, specialmente tra i giovani, mentre cresce l’aperta ostilità nei suoi confronti. In nessun luogo questo è più sorprendente che nelle università degli Stati Uniti. In un sondaggio Gallup pubblicato lo scorso anno, il 61% degli studenti americani ha affermato che il clima del campus impedisce alle persone di esprimere ciò in cui credono, rispetto al 54% dell’anno precedente. Altri dati tratti dallo stesso sondaggio potrebbero spiegare il perché. Un notevole 37% ha dichiarato che è “accettabile” zittire gli oratori con cui non si è d’accordo per impedire che siano ascoltati, e un incredibile 10% ha approvato che siano fatti tacere con l’uso della violenza.
Molti studenti lo giustificano sostenendo che alcuni oratori sono razzisti, omofobi od ostili ad altri gruppi svantaggiati. Questo a volte è vero. Ma gli oggetti dell’indignazione espressa nelle università sono stati spesso studiosi seri e stimati. Heather Mac Donald, ad esempio, che sostiene che le proteste di “Black Lives Matter” hanno spinto la polizia a ritirarsi dai quartieri ad alto tasso di crimine e che ciò ha fatto impennare il tasso di omicidi, ha dovuto essere portata fuori dal Claremont McKenna College, in California, in un’auto della polizia. Manifestanti furiosi sostenevano che lasciarla parlare era un atto di “violenza” che negava “il diritto all’esistenza dei neri”.
Simili contorsioni verbali sono diventate comuni a sinistra. Molti radicali sostengono che le parole sono “violenza” se denigrano gruppi svantaggiati. Alcuni aggiungono che chiunque conceda un pulpito agli oratori offensivi non condanna le loro idee malvagie. Inoltre, dato che l’America si è polarizzata politicamente, molti hanno iniziato a dividere il mondo in modo semplicistico tra le persone “buone” (quelli che sono d’accordo con loro) e le persone “cattive” (quelli che non lo sono). Ciò ha portato a strani contrasti. Al Reed College di Portland, nell’Oregon, Lucia Martinez Valdivia, docente di razza mista, gay e con disturbo post traumatico da stress, è stata accusata di essere “anti-nera” perché si era lamentata degli studenti aggressivi che le stavano accanto impedendole, a forza di urlare, di tenere una lezione sulla poesia lesbica greca antica (a cui i disturbatori obiettavano perché la poetessa Saffo oggi sarebbe considerata bianca).
Come sostengono Greg Lukianoff e Jonathan Haidt in “The coddling of the American mind” (Viziare la mentalità americana, ndt)
Una intolleranza simile si è diffusa anche in Europa. I manifestanti francesi dei “gilet gialli” hanno picchiato diverse volte le troupe televisive (e molto più spesso sono stati picchiati violentemente dalla polizia, ndt). In Gran Bretagna qualsiasi discussione sulle questioni riguardanti i transgender è esplosiva. A settembre, ad esempio, il Consiglio comunale di Leeds ha vietato a Woman’s Place Uk, un gruppo femminista, di tenere un incontro perché gli attivisti le avevano accusate di “transfobia”. (Le femministe non pensano che il semplice dichiarare “Io sono una donna” debba consentire a maschi biologici il diritto di entrare negli spazi riservati alle donne, come spogliatoi e rifugi antistupro.)
“È quasi impossibile avere un dibattito libero [su questo argomento]. Non ho mai visto niente del genere“, afferma Ruth Serwotka, co-fondatrice di Woman’s Place Uk. Oggi, il gruppo comunica ai membri dove le riunioni avranno luogo con soltanto un paio d’ore di anticipo, per evitare interruzioni. Le femministe che mettono in discussione l'”autoidentificazione di genere” (l’idea che se dichiari di essere una donna, dovresti essere automaticamente trattata come una donna a termini di legge) sono sistematicamente minacciate di stupro o morte. Alcune hanno affrontato campagne organizzate per farle licenziare dai loro posti di lavoro, bannare da Twitter o arrestare. A marzo, ad esempio, Caroline Farrow, una giornalista cattolica, è stata interrogata dalla polizia britannica dopo che qualcuno si era lamentato del fatto che avesse usato il pronome sbagliato per descrivere una ragazza transgender. Un’altra femminista, la sessantenne Maria MacLachlan, è stata picchiata da un’attivista transgender allo Speakers’ Corner di Londra, dove la libertà di parola dovrebbe essere sacrosanta.
Tradotto e pubblicato da Vocidallestero.it
Sia negli stati democratici sia in quelli autoritari alzare la voce diventa sempre più difficile
Il 22 giugno in Etiopia si è verificato un presunto tentativo di colpo di stato. Il capo del personale dell’esercito è stato ucciso, così come il presidente dell’ Amhara, una delle nove regioni del paese. I cittadini comuni in Etiopia cercavano disperatamente di capire che cosa stesse succedendo. E poi il governo ha sospeso Internet. A mezzanotte, circa il 98% dell’Etiopia era offline.
“La gente riceveva notizie distorte ed era molto confusa su ciò che stava accadendo… in quel preciso istante non c’era alcuna informazione“, ricorda Gashaw Fentahun, giornalista presso l’Amhara Mass Media Agency, un ente di informazione statale. Lui e i suoi colleghi stavano provando a realizzare un resoconto degli avvenimenti. Invece di caricare file audio e video in digitale, hanno dovuto inviarli alla sede principale in aereo, il che ha causato un enorme ritardo.
L’anno scorso 25 governi hanno imposto blackout su Internet. Soffocare la connessione fa infuriare le persone e mette in ginocchio le economie. Tuttavia, gli autocrati ritengono che ne valga la pena, di solito per impedire che le informazioni circolino durante una crisi.
Questo mese il governo indiano ha chiuso Internet nel contestato Kashmir, per la 51esima volta quest’anno. “Non ci sono notizie, niente”, afferma Aadil Ganie, un cittadino del Kashmir bloccato a Delhi, aggiungendo che non sa nemmeno dove sia la sua famiglia, perché sono bloccati anche i telefoni. Negli ultimi mesi il Sudan ha chiuso i social media per impedire ai contestatori di organizzarsi, il regime del Congo ha disattivato le reti mobili in modo da poter truccare le elezioni di nascosto, e il Chad ha azzoppato i social media, per mettere a tacere le proteste contro il piano del presidente di rimanere al potere fino al 2033.
Lingue legate
La libertà di parola è dura da conquistare e facile da perdere. In Etiopia solo un anno fa era fiorita, durante il mandato di un nuovo primo ministro apparentemente liberale, Abiy Ahmed. Tutti i giornalisti in prigione sono stati rilasciati e sono stati aperti centinaia di siti web, blog e canali TV satellitari. Ma ora il regime ci sta ripensando. Senza una dittatura a contenerla, la violenza etnica è divampata. I fanatici hanno incitato alla pulizia etnica sui social media da poco resi liberi. Quasi 3 milioni di Etiopi sono stati cacciati dalle loro case.
L’Etiopia sta affrontando una vera emergenza e molti etiopi ritengono ragionevole che il governo metta a tacere chi sostiene la violenza. Ma durante il presunto colpo di stato il governo ha fatto molto di più: di fatto ha messo a tacere tutti. Come ha scritto Befekadu Haile, giornalista e attivista: “Nell’oscurità, tutto quello che succedeva è stato raccontato dal governo“.
Alcuni ora temono un ritorno ai giorni bui dei predecessori di Abiy, quando i blogger dissidenti venivano torturati. Il regime possiede ancora camionate di kit elettronici per spiare e censurare, molti dei quali acquistati dalla Cina. Sta inoltre progettando di rendere reato l’ “hate speech” (discorsi caratterizzati da forte aggressività e violenza, ndt), con una legge che potrebbe richiedere una sorveglianza di massa e un attento monitoraggio dei social media da parte della polizia. Molti temono che la legge verrà utilizzata per bloccare anche i dissidenti pacifici.
Secondo Freedom House, organizzazione che osserva le condizioni di libertà e democrazia nei paesi, la libertà di parola negli ultimi dieci anni è diminuita a livello globale. I regimi repressivi lo sono diventati ancora di più: tra quelli classificati come “non liberi” da Freedom House, il 28% ha stretto ulteriormente il guinzaglio negli ultimi cinque anni; solo il 14% lo ha allentato. I paesi “parzialmente liberi” hanno avuto le stesse probabilità di migliorare o peggiorare, ma i paesi “liberi” sono regrediti. Circa il 19% di questi (16 paesi) è diventato meno tollerante verso la libertà di parola negli ultimi cinque anni, mentre solo il 14% è migliorato (vedi mappa).
Questo è avvenuto per due ragioni principali. In primo luogo, i partiti al potere in molti paesi hanno trovato nuovi strumenti per sopprimere fatti e idee che li mettono in difficoltà. In secondo luogo, si sentono incoraggiati a usare questi strumenti, in parte anche perché il sostegno globale alla libertà di parola si è indebolito. Nessuna delle superpotenze del mondo ha intenzione di difenderla. La Cina censura spietatamente il dissenso in patria ed esporta la tecnologia per censurarlo all’estero. Gli Stati Uniti, un tempo sostenitori della libera espressione, sono ora guidati da un uomo che dice cose del genere:
“Non vogliamo certo soffocare la libertà di parola, ma … non penso che i media mainstream siano la libertà di parola … perché sono così disonesti. Quindi, per me, la libertà di parola non è che tu veda qualcosa di buono e scriva volutamente che è cattivo. Per me questo è un discorso molto pericoloso, che mi fa infuriare.”Davvero? Ma vedere qualcosa che il governo presenta come positivo e sottolineare perché è negativo è una funzione essenziale del giornalismo. In effetti, è una delle garanzie più cruciali della democrazia. Il presidente Donald Trump non ha la facoltà di censurare i media in America, ma le sue parole contribuiscono a un clima globale di disprezzo per il giornalismo indipendente. Gli autocrati che ovunque promuovono la censura citano spesso gli slogan di Trump, il quale definisce le notizie critiche “fake news” e i giornalisti critici “nemici del popolo”.
L’idea che certe opinioni debbano essere messe a tacere è popolare anche a sinistra. In Gran Bretagna e in America gli studenti impediscono di parlare agli oratori che ritengono essere razzisti o transfobici, mentre gli attivisti su Twitter chiedono che sia chiuso l’account di chiunque violi un elenco di tabù in continua espansione. Molti radicali occidentali pretendono che, se qualcosa a loro parere è offensivo, nessuno debba essere autorizzato a dirlo.
I regimi autoritari, ovunque, concordano. Ma giudicare qualcosa “offensivo” è soggettivo, quindi le leggi sull’hate speech possono diventare strumenti elastici per criminalizzare il dissenso. A marzo il Kazakistan ha arrestato Serikzhan Bilash per “incitamento all’odio etnico”. Si era lamentato dell’incarcerazione di massa degli Uiguri in Cina, grande partner commerciale del Kazakistan. Il governo del Ruanda interpreta quasi ogni critica che gli viene posta come sostegno a un nuovo genocidio. In India sono state proposte nuove regole che richiederebbero che le piattaforme digitali blocchino tutti i contenuti illegali, un compito difficile se pensiamo che in India è illegale promuovere la disarmonia “per motivi di religione, razza, luogo di nascita, residenza, lingua, casta o comunità o qualsiasi altro motivo”.
Un modo per stroncare la libertà di parola è uccidere l’oratore. Almeno 53 giornalisti sono stati uccisi sul lavoro nel 2018, leggermente più che nei due anni precedenti, secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ ), un’organizzazione di controllo. Pochi degli omicidi sono stati catturati. Il paese più letale per i giornalisti è stato l’Afghanistan, dove ne sono stati uccisi 13. In un caso, un jihadista si è travestito da giornalista, in modo da mescolarsi e massacrare i primi reporter e medici ad arrivare sulla scena di un precedente attentato suicida.
Forse l’omicidio più sfrontato del 2018 è stato quello di Jamal Khashoggi, un critico del regime saudita. Una squadra di killer è sbarcata in Turchia su jet privati facilmente identificabili, ha guidato un’auto di lusso fino al consolato saudita di Istanbul e ha fatto a pezzi Khashoggi in territorio consolare. Chiunque abbia ordinato l’azione presumibilmente ha pensato che non ci sarebbero state serie conseguenze dal massacro di un collaboratore del Washington Post. Aveva ragione. Sebbene Germania, Danimarca e Norvegia abbiano bloccato le vendite di armi all’Arabia Saudita, Trump ha sottolineato che l’America rimarrà il “partner fisso” del regno.
Il 1° dicembre 2018 il CPJ ha contato più di 250 giornalisti in prigione a causa del loro lavoro: almeno 68 in Turchia, 47 in Cina, 25 in Egitto e 16 in Eritrea. Il numero reale è sicuramente più alto, dal momento che molti giornalisti sono detenuti senza accuse e senza nemmeno che lo si sappia. Tuttavia, il numero in Eritrea potrebbe essere inferiore, poiché quasi tutti sono stati tenuti in condizioni terribili da quando il presidente Issaias Afwerki ha chiuso i media indipendenti nel 2001, e alcuni probabilmente sono morti.
Piuttosto che rischiare la seccatura e la cattiva pubblicità di mettere i giornalisti sotto processo, alcuni regimi cercano di renderli docili intimorendoli. In Pakistan, quando gli ufficiali militari chiamano i giornalisti per lamentarsi di un articolo, questi in generale si piegano. Ahmad Noorani, un giornalista che ha osato scrivere del ruolo dell’esercito in politica, è stato coinvolto in un’imboscata da sconosciuti assalitori in una strada trafficata della capitale, Islamabad, e picchiato quasi a morte con un piede di porco.
In India i giornalisti che criticano il partito al potere, Bharatiya Janata Party (BJP), ricevono caterve di minacce sui social media dai nazionalisti indù. Se sono di sesso femminile, queste minacce possono includere lo stupro. I giornalisti sono spesso screditati: vengono diffuse le immagini delle loro famiglie, invitando la gente ad attaccarli. Barkha Dutt, una presentatrice televisiva, ha presentato una denuncia contro i troll che le avevano inviato minacce di morte e pubblicato il suo numero di telefono personale spacciandolo per quello di un servizio di escort. Quattro sospetti sono stati arrestati a marzo.
A volte le peggiori minacce contro i giornalisti indiani vengono anche messe in atto, dando così una credibilità agghiacciante a tutte le altre. Gauri Lankesh, un giornalista che spesso ha criticato il nazionalismo indù, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco fuori dalla sua casa nel 2017. I sostenitori del BJP hanno festeggiato. L’uomo arrestato per avere premuto il grilletto ha detto alla polizia che i suoi mandanti gli avevano detto che doveva farlo per “salvare” la sua religione.
L’intimidazione però non sempre funziona. Ivan Golunov, un giornalista russo, ha indagato sui funzionari della città di Mosca che acquistano in nero dimore milionarie e sugli agenti di sicurezza che entrano in affari con la mafia. Le sue storie erano poco conosciute, pubblicate su un piccolo sito web chiamato Meduza. Il 6 giugno la polizia si è impadronita di Golunov, lo ha legato in un’auto, lo ha portato in un edificio governativo, lo ha picchiato e ha affermato di avere trovato droga nel suo zaino. Il ministero dell’Interno ha pubblicato nove foto di droga sostenendo che era stata trovata nel suo appartamento, ma poi ne ha rimosse otto, ammettendo che erano state portate da altrove e affermando che erano state pubblicate per errore.
I sostenitori di Golunov erano convinti che quella delle droghe fosse solo una messa in scena. Con sorpresa delle autorità, la storia si è diffusa rapidamente su Facebook e Twitter: la Russia non ha nulla a che vedere con la capacità della Cina di sopprimere i post indesiderati sui social media. Gruppi di manifestanti sono scesi in strada per chiedere il rilascio di Golunov. I media stranieri hanno ripreso la vicenda, che ha oscurato il vertice di Putin con Xi Jinping, presidente cinese, in corso quella settimana. Un Cremlino imbarazzato ha ordinato la liberazione di Golunov. Quando la sua nuova indagine è stata pubblicata da Meduza, poche settimane dopo, è stata letta da 1,5 milioni di persone, enormemente di più del suo pubblico abituale.
Ultime notizie
Mentre le entrate pubblicitarie che servono a sostenere il giornalismo indipendente diminuiscono, molti governi hanno trovato più facile distorcere le notizie con i sudati soldi dei contribuenti. Il metodo più semplice è di pomparli nei media statali, che supportano ossequiosamente i partiti al potere. La maggior parte dei regimi autoritari lo fa. Cina e Russia vanno oltre, sponsorizzando i media globali che cercano di minare la democrazia ovunque. Tuttavia, il problema dei media statali, dal punto di vista di un autocrate, è che tendono ad essere noiosi.
Quindi un altro metodo è quello di utilizzare la pubblicità del governo per premiare la sottomissione e punire l’indipendenza. In molti paesi il governo è di gran lunga il più grande inserzionista, quindi i giornali e le stazioni televisive hanno il terrore di infastidirlo.
Un metodo più sottile è quello di intessere rapporti con imprenditori che dipendono dallo stato per concessioni o contratti, e spingerli ad acquistare media. A differenza dei normali imprenditori, questi non hanno bisogno delle loro società di media per realizzare profitti. I favori che le loro imprese di costruzione ricevono superano di gran lunga le perdite che subiscono gestendo emittenti televisive allineate. Di fatto, riescono spesso a danneggiare i loro rivali dei media indipendenti, esacerbando i disagi finanziari causati dal declino della pubblicità, da controlli fiscali aggressivi, da multe irragionevoli e via dicendo. Media indipendenti a corto di soldi sono ovviamente più economici da comprare e addomesticare per la cricca governativa.
Numerosi partiti al potere usano queste tattiche. L’India ne usa la maggior parte, così come la Russia e la Turchia. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, è accusato di avere promesso una regolamentazione favorevole a una società di telecomunicazioni, in cambio di una posizione favorevole su un sito web di proprietà della stessa società. A gennaio, il quotidiano più popolare del Nicaragua ha pubblicato una prima pagina bianca, per denunciare che le sue forniture importate di inchiostro, carta e altri materiali erano state misteriosamente sequestrate alla dogana, dopo che aveva pubblicato rapporti critici sul partito sandinista al potere.
Loschi traffici di questo tipo si sono insinuati perfino in aree considerate democratiche dell’Europa. Il partito al potere ungherese, Fidesz, ha usato denaro pubblico per dominare l’opinione pubblica. L’agenzia di stampa statale è stata riempita di leccapiedi e offre i suoi bollettini gratuitamente ai mezzi di informazione senza soldi. “Ricevi una notizia flash su [una nuova stazione radio rock indipendente], ma [è] totalmente propaganda governativa… perché è gratuita”, si lamenta un giornalista locale.
Il budget pubblicitario del governo ungherese è aumentato enormemente dal 2010, quando il primo ministro Viktor Orban ha preso il potere. La sua cricca ha acquistato emittenti e siti web precedentemente aggressivi. “È un processo inarrestabile“, afferma un giornalista indipendente. “Gli ungheresi sono abituati all’idea che le notizie online siano gratuite. Quindi [le aziende dei media] devono fare affidamento sul denaro dei loro proprietari. E molti degli imprenditori nella vita pubblica sono legati al governo.” L’anno scorso i proprietari di 476 società di media, compresi praticamente tutti i giornali locali in Ungheria, li hanno ceduti gratuitamente a una nuova megafondazione gestita da un amico di Orban. Privi di fondi, i giornalisti seri hanno difficoltà a fare il proprio lavoro. “È praticamente impossibile indagare anche sulle principali storie di corruzione, perché ce ne sono così tante“, afferma Agnes Urban di Mertek, organizzazione che vigila sui media.
Nel frattempo nelle democrazie mature il sostegno alla libertà di parola sta diminuendo, specialmente tra i giovani, mentre cresce l’aperta ostilità nei suoi confronti. In nessun luogo questo è più sorprendente che nelle università degli Stati Uniti. In un sondaggio Gallup pubblicato lo scorso anno, il 61% degli studenti americani ha affermato che il clima del campus impedisce alle persone di esprimere ciò in cui credono, rispetto al 54% dell’anno precedente. Altri dati tratti dallo stesso sondaggio potrebbero spiegare il perché. Un notevole 37% ha dichiarato che è “accettabile” zittire gli oratori con cui non si è d’accordo per impedire che siano ascoltati, e un incredibile 10% ha approvato che siano fatti tacere con l’uso della violenza.
Molti studenti lo giustificano sostenendo che alcuni oratori sono razzisti, omofobi od ostili ad altri gruppi svantaggiati. Questo a volte è vero. Ma gli oggetti dell’indignazione espressa nelle università sono stati spesso studiosi seri e stimati. Heather Mac Donald, ad esempio, che sostiene che le proteste di “Black Lives Matter” hanno spinto la polizia a ritirarsi dai quartieri ad alto tasso di crimine e che ciò ha fatto impennare il tasso di omicidi, ha dovuto essere portata fuori dal Claremont McKenna College, in California, in un’auto della polizia. Manifestanti furiosi sostenevano che lasciarla parlare era un atto di “violenza” che negava “il diritto all’esistenza dei neri”.
Simili contorsioni verbali sono diventate comuni a sinistra. Molti radicali sostengono che le parole sono “violenza” se denigrano gruppi svantaggiati. Alcuni aggiungono che chiunque conceda un pulpito agli oratori offensivi non condanna le loro idee malvagie. Inoltre, dato che l’America si è polarizzata politicamente, molti hanno iniziato a dividere il mondo in modo semplicistico tra le persone “buone” (quelli che sono d’accordo con loro) e le persone “cattive” (quelli che non lo sono). Ciò ha portato a strani contrasti. Al Reed College di Portland, nell’Oregon, Lucia Martinez Valdivia, docente di razza mista, gay e con disturbo post traumatico da stress, è stata accusata di essere “anti-nera” perché si era lamentata degli studenti aggressivi che le stavano accanto impedendole, a forza di urlare, di tenere una lezione sulla poesia lesbica greca antica (a cui i disturbatori obiettavano perché la poetessa Saffo oggi sarebbe considerata bianca).
Come sostengono Greg Lukianoff e Jonathan Haidt in “The coddling of the American mind” (Viziare la mentalità americana, ndt)
“Se alcuni studenti ora pensano che sia giusto prendere a pugni un fascista o un suprematista bianco, e se chiunque non sia d’accordo con loro può essere etichettato come un fascista o un suprematista bianco, beh, è chiaro come questa mossa retorica potrebbe rendere le persone riluttanti a esprimere opinioni dissenzienti all’università.”L’abitudine di cercare di mettere a tacere le opinioni opposte, invece di combatterle, si è diffusa anche fuori dalle università. A Portland, in Oregon, questo fine settimana, estremisti di destra stanno pianificando di radunarsi, ci si aspetta che i loro avversari “antifa” (antifascisti) tenteranno di impedirlo, ed entrambe le parti sono impazienti di venire alle mani. Quando gli stessi gruppi si sono scontrati a giugno, un giornalista conservatore, Andy Ngo, è stato percosso così violentemente che è stato ricoverato in ospedale con un’emorragia cerebrale.
Una intolleranza simile si è diffusa anche in Europa. I manifestanti francesi dei “gilet gialli” hanno picchiato diverse volte le troupe televisive (e molto più spesso sono stati picchiati violentemente dalla polizia, ndt). In Gran Bretagna qualsiasi discussione sulle questioni riguardanti i transgender è esplosiva. A settembre, ad esempio, il Consiglio comunale di Leeds ha vietato a Woman’s Place Uk, un gruppo femminista, di tenere un incontro perché gli attivisti le avevano accusate di “transfobia”. (Le femministe non pensano che il semplice dichiarare “Io sono una donna” debba consentire a maschi biologici il diritto di entrare negli spazi riservati alle donne, come spogliatoi e rifugi antistupro.)
“È quasi impossibile avere un dibattito libero [su questo argomento]. Non ho mai visto niente del genere“, afferma Ruth Serwotka, co-fondatrice di Woman’s Place Uk. Oggi, il gruppo comunica ai membri dove le riunioni avranno luogo con soltanto un paio d’ore di anticipo, per evitare interruzioni. Le femministe che mettono in discussione l'”autoidentificazione di genere” (l’idea che se dichiari di essere una donna, dovresti essere automaticamente trattata come una donna a termini di legge) sono sistematicamente minacciate di stupro o morte. Alcune hanno affrontato campagne organizzate per farle licenziare dai loro posti di lavoro, bannare da Twitter o arrestare. A marzo, ad esempio, Caroline Farrow, una giornalista cattolica, è stata interrogata dalla polizia britannica dopo che qualcuno si era lamentato del fatto che avesse usato il pronome sbagliato per descrivere una ragazza transgender. Un’altra femminista, la sessantenne Maria MacLachlan, è stata picchiata da un’attivista transgender allo Speakers’ Corner di Londra, dove la libertà di parola dovrebbe essere sacrosanta.
Tradotto e pubblicato da Vocidallestero.it
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