Come si sarebbe potuta evitare la battaglia sul bilancio italiano
DI CARMENTHESISTER
Sulla rivista finanziaria Barron’s, Matthew C. Klein commenta la disputa tra Italia e Commissione europea sul bilancio italiano come il risultato di una raccomandazione “insensata” da parte della Commissione. Nonostante la prolungata crisi dell’eurozona abbia ampiamente dimostrato l’inadeguatezza dei vincoli di bilancio di Maastricht, le istituzioni europee insistono nell’irrigidire le regole e utilizzano una metodologia “erronea” per consentire, in tempi eccezionali, il loro allentamento. Ha quindi ragione il governo italiano a rifiutarsi di subire delle indicazioni irragionevoli, e farebbero bene i media nazionali a mettersi, nella disputa, dalla parte del proprio paese.
Matthew C. Klein, 2 novembre 2018
Bruxelles sta affrontando con l’Italia una stupida battaglia.
Nel vasto quadro generale, la differenza tra un deficit di bilancio dello 0,8% del prodotto interno lordo e uno del 2,4% non è molto grande.
Eppure, secondi i funzionari della Commissione europea che stanno valutando il disegno di bilancio del governo italiano per il prossimo anno, rappresenta una “deviazione significativa” e una violazione degli “impegni presi dall’Italia”. La Commissione ha chiesto agli italiani di rivedere il loro bilancio e ripresentarlo entro il 13 novembre. La mancata osservanza delle indicazioni potrebbe comportare delle sanzioni.
Questa controversia mette in luce i seri problemi relativi alle regole fiscali dell’Unione europea e al modo in cui queste regole sono messe in atto.
I problemi sono iniziati circa 30 anni fa, con i negoziati sulla creazione dell’Unione monetaria europea. Ai tempi, gli europei pensavano che le grandi minacce all’integrità della moneta unica fossero il debito pubblico eccessivo e l’inflazione. Hanno quindi imposto dei limiti ai deficit di bilancio e all’ammontare totale di debito pubblico (i veri pericoli si sono poi rivelati essere l’avidità delle banche e la devastante tendenza deflazionistica).
I “valori di riferimento” utilizzati nei trattati – il 3% del PIL per i disavanzi e il 60% per il debito – non erano basati su alcuna analisi economica. La regola del disavanzo è nata in Francia all’inizio degli anni ’80 perché il governo francese voleva un obiettivo raggiungibile e pensava che il 3% avrebbe ricordato ai cattolici francesi la dottrina cristiana della Trinità. Il limite del debito del 60% non era altro che il livello medio dei titoli del debito pubblico dell’Europa occidentale nei primi anni ’90.
In effetti quando fu pubblicato, nell’ottobre 1990, il rapporto ufficiale della Commissione sull’unione monetaria non raccomandava alcuno specifico limite di debito. Si limitava a notare che il debito pubblico del 100% del PIL sarebbe stato elevato in rapporto a un tasso di interesse reale sul debito del 5% e un tasso di crescita del PIL reale del 3%. Oggigiorno, i tassi di interesse reali nei paesi sottoposti alla vigilanza della Banca centrale europea sono ben al di sotto dello zero e significativamente al di sotto dei tassi di crescita reali, il che significa che il livello sostenibile del debito oggi dovrebbe essere molto più alto di 30 anni fa.
Mentre la crisi dell’euro dimostrava i limiti dell’approccio miope alla politica fiscale, le principali riforme degli ultimi anni si sono incentrate sul rendere le regole di bilancio ancora più draconiane di quanto non fossero prima. Tutto questo ha strangolato la spesa interna, impoverito decine di milioni di europei ed esacerbato gli squilibri commerciali con il resto del mondo. Nel 2012, le nazioni che condividono l’euro hanno concordato di mantenere il bilancio in pareggio, in media, ogni singolo anno. L’obiettivo era quello di eliminare tutto il debito pubblico il più rapidamente possibile.
I successivi aggiustamenti hanno consentito una certa flessibilità su quello che avrebbe dovuto essere un ritmo adeguato di aumenti delle tasse e tagli alla spesa, a seconda delle condizioni economiche e di altri fattori, ma questo non è stato sufficiente a impedire una stretta eccessiva della politica fiscale globale dell’Europa. Mentre i paesi in recessione – “fasi eccezionalmente negative”, in gergo – non sono obbligati a inasprire i vincoli dei loro bilanci, quasi tutti gli altri dovrebbero aumentare costantemente le tasse e tagliare le spese fino a raggiungere un deficit vicino allo zero. In “tempi normali”, ad esempio, i paesi dell’euro con debito pubblico inferiore al 60% del PIL dovrebbero contenere il deficit di bilancio allo 0,5% del PIL ogni anno, fino al raggiungimento di un bilancio sostanzialmente in pareggio.
La Commissione europea ha il compito di valutare le condizioni economiche, assegnare gli obiettivi ai governi e valutare la conformità delle proposte di bilancio. Avrebbe potuto facilmente dare all’Italia un lasciapassare, poiché i paesi in simili gravi difficoltà non sono obbligati a restringere i loro bilanci.
L’economia italiana è ancora inferiore del 5% rispetto al livello di dieci anni fa e non ha avuto quasi inflazione da più di sei anni. Queste sono proprio le circostanze in cui i tagli fiscali e gli aumenti di spesa proposti dall’attuale governo potrebbero aumentare la produzione e abbassare effettivamente il rapporto tra debito e PIL.
L’immaginaria ripresa
Stima della Commissione europea del divario tra il prodotto interno lordo italiano e il “prodotto potenziale non inflattivo”
Fonte: Banca dati AMECO della Commissione europea
Eppure la Commissione ha comunicato all’Italia che aveva bisogno di un “aggiustamento strutturale annuale dello 0,6% del PIL” perché l’economia italiana ha avuto una piena ripresa e il suo debito è ancora troppo alto. Secondo le stime della Commissione, l’ “output gap” (differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, ndt) che misura lo stato del ciclo economico, nel 2018 è migliorato a -0,1% dal -4,5% del 2014. La Commissione prevede che questo indicatore aumenterà ulteriormente, allo 0,5% nel 2019, il che implica che l’economia italiana supererà presto il suo “potenziale non inflazionistico”.
La mancata ripresa
Numero totale di ore lavorate in Italia
Fonti: Istat; Calcoli di Barron
La spiegazione più probabile per questo bizzarro risultato è che la metodologia della commissione interpreti erroneamente una depressione protratta nel tempo come “tempi normali”.
Dopo tutto, dal 2008 al 2014 il numero di ore lavorate in Italia è diminuito del 10%. Benché da allora ci sia stata una modesta ripresa, gli italiani stanno ancora lavorando molto meno rispetto a prima della crisi. Il tasso di disoccupazione italiano è ancora di circa quattro punti percentuali superiore a quello del 2007.
Il ritorno de “lo spread”
Sfortunatamente per l’Italia, la disputa sulla insensata raccomandazione della Commissione ha spaventato i mercati obbligazionari e aumentato la probabilità cumulativa di un default sovrano italiano nei prossimi cinque anni, dal 5% a più del 20%. Se prolungata nel tempo, questa situazione potrebbe generare condizioni finanziarie più restrittive e scoraggiare i prestiti bancari.
Sarebbe auspicabile che la Commissione riesaminasse il modo in cui calcola l’output gap, cosa che andrebbe a vantaggio di molti paesi oltre all’Italia, e la BCE dovrebbe intervenire per riportare alla normalità quello che gli italiani chiamano “lo spread”. In caso contrario, gli italiani potrebbero trovarsi nella necessità di preparare un piano B.
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