Peter Laslett, “Il Mondo che abbiamo perduto”). Oggi vi parlano della Rivoluzione Industriale come l’avvio delle “magnifiche sorti e progressive” dell’era tecnologica e del Medioevo come un’epoca di puro oscurantismo, ma, come spesso accade, le cose sono alquanto più complesse…
Il nostro caso italiano, per molti versi, ha poco a che spartire con queste realtà nordeuropee di cui parlavamo: viviamo nel Paese delle città d’arte e in esse la vita si è svolta sempre attraverso un complessivo disegno di armonia, al pari di quello delle piccole comunità. Ancora oggi la meraviglia architettonica diffusa dei nostri centri storici rappresenta a livello simbolico un antidoto contro la società del brutto massificato che minaccia la nostra umanità giorno dopo giorno. Per noi città non significa ciò che tale parola ha significato altrove, ma ciò non significa che non vi siano in atto anche qui pratiche di dominio e di sradicamento ugualmente perniciose…
Ecco dunque irrompere nella Storia l’idea della “città museo” o “città vetrina”, un centro urbano concepito interamente per masse desideranti e dall’immaginario desertificato di turisti globali e negato ai propri residenti, espulsi da esso per ragioni economiche, logistiche, ecc…
Questo disegno criminoso porta con sé la morte della città, poiché se elimini una comunità vivente da un lato e musealizzi la realtà dall’altro, avrai come ovvia conseguenza quella di rapportarti con un simulacro di città, una pura rappresentazione idealizzata, priva di quei contrasti che rendono viva una città, per i residenti come per i visitatori.
Firenze, la città dove sono nato e dove abito, rappresenta questo paradigma erroneo in maniera esemplare, un magnifico salottino senza vita vera in cui ogni forma di “contrasto” è rappresentato sotto forma di pura commediola. Si crede di preservare una storia e invece la si separa dalla gente, creando una bolla imperforabile
Poiché la “città museo” non divenga definitivamente “museo”, occorre ripensare totalmente il ruolo che turismo e residenti hanno nei confronti di queste realtà, incentivando il ritorno delle vere attività produttive nei centri urbani e disincentivando tutto il turismo “mordi e fuggi” che rappresenta oramai il dato numerico più rilevante, non costituendo neanche una reale risorsa per le città da esso colpite.
Tra le tantissime proposte perché le nostre città tornino alla vita mi permetto di indicarne cinque:
  • Interrompere immediatamente la controversa e ideologia del “decoro”,di fatto una forma di repressione meramente “formale”, puntualmente contraddetta dalla svendita dei centri storici a sponsor e a privati, come dall’antiestetico utilizzo di installazioni di arte contemporanea totalmente avulse dal contesto o da scelte urbanistiche scellerate. Reinserimento, responsabilizzazione di locali e non in una idea di nuovo civismo partecipato.
  • Nuova centralità delle cosiddette periferie, che devono diventare il teatro privilegiato di eventi, creando veri e propri “distretti tematici”, valorizzando aree dismesse, strutture industriali etc… Utilizzare questi luoghi come laboratorio per architettura e arte contemporanea e non.
  • Cessazione della politica dei “grandi eventi”, enormi concerti una tantum che funzionano come fugace spot, ma che non hanno alcuna incidenza reale sul tessuto cittadino. Reinvestire tali risorse per una proposta capillare e continuativa di eventi più piccoli che facciano vivere le varie zone della città, anche come antidoto a degrado, piccola criminalità, etc…
  • Libera circuitazione delle conoscenze, onde evitare fenomeni di concentrazione delle competenze ed aprire a personalità super partes l’ideazione di nuove pratiche culturali.
  • Rilancio attivo dell’artigianato locale, non solo in termini della vendita di oggetti, – con una ferrea disciplina dei prodotti imitativi e delle contraffazioni – ma anche rilanciandone la pratica con grandi scuole e laboratori atti allo scopo.
Queste e altre proposte possono essere ovviamente declinate specificamente rispetto alle singole realtà, ma ritengo questi i paradigmi minimi per imporre una svolta.
Questo manifesto è un tentativo “in fieri” che può essere integrato da contributi, idee, suggerimenti.