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mercoledì 20 marzo 2019

LA SFIDA DEL LAVORO NEL 21MO SECOLO

Andrea Cavalleri)


Sommario introduttivo.

Ho affrontato il tema dalle radici perché nella concezione più diffusa dell’economia esistono molti luoghi comuni che, a mio avviso, sono semplicemente sbagliati.
Ho quindi sottolineato tante aporie e piccoli paradossi, specificando quello che reputo il modo corretto di intendere le cose.

Nei primi paragrafi (1-2-3-4) mi dedico a descrivere la natura del lavoro nei suoi aspetti costitutivi e sociali.
Nei punti 5-6-7 specifico degli aspetti più propriamente economici del lavoro e il loro esito nel mercato.
Più oltre (8-9-10) mi occupo degli elementi propulsivi dell’attività in una società organizzata: capitale, impresa e gestione degli stessi (finanza).
Nei punti 11-12-13, illustro gli ostacoli alla pratica del lavoro, spiegando come sia possibile la disoccupazione e perché è lecito attendersi che il problema perduri e peggiori.
Nei paragrafi 14-15 illustro cause e problemi del sistema in atto.
Ai punti 16-17 espongo un modello alternativo analizzandone il funzionamento.
Al paragrafo 18 offro una breve conclusione di natura generale.

.1 Cosa è il lavoro.

Ponendo questa domanda non si vuole dire una cosa ovvia e retorica ma osservare un po’ meglio le caratteristiche dell’oggetto della nostra riflessione.
Il lavoro è l’attività umana per eccellenza, tuttavia non è l’unica. Esistono delle altre attività che non sono lavoro, come il gioco, i viaggi vacanze, lo sport, il culto religioso le relazioni d’amicizia e molto altro ancora.
Dunque il lavoro sarà contraddistinto da qualche elemento specifico che permette di distinguerlo dalle altre attività.

Andando per gradi si potrebbe dire che il lavoro è un’attività utile, in funzione al sostentamento della specie umana.
Eppure è lavoro anche quello dell’astrofisico, che studia qualcosa con cui nessuno interagirà mai, o dell’artista che sovente produce oggetti senza nessuna utilità pratica.
Dunque il concetto di utilità materiale non è sufficiente a definire il lavoro.

Facendo un secondo passo, si può notare che è considerata lavoro ogni attività pagata, cioè  riconosciuta come utile dalla comunità umana.
Anche se questa caratteristica è soggetta a eccezioni per eccesso (i “lavori” malavitosi, o quelli dei bamboccioni viziati strapagati come i calciatori) o per difetto (lavori svolti a titolo gratuito) introduce un elemento importante, che è quello relazionale.

Se Aristotele ha ragione, definendo l’uomo un animale socievole, potremmo azzardare il concetto che lavoro è dunque quella attività finalizzata a rendere l’uomo ciò che egli è, sia dal punto di vista materiale che spirituale, in relazione con se stesso, gli altri e l’ambiente.
In quanto animale vivo, la parte materiale del lavoro serve per nutrirsi, avere un rifugio sicuro, mantenersi in salute e simili; l’altra parte del lavoro serve per soddisfare i bisogni dell’uomo in quanto animale razionale e socievole, come una convivenza ordinata, come la promozione della fiducia reciproca e del mutuo aiuto, in una società che si preoccupa di rispondere alle domande esistenziali e scientifiche e che cerca di circondarsi non solo di comodità, ma anche di bellezza.


.2 Lavoro e dignità della persona .

Cito la Bibbia che è considerata testo di rivelazione divina dalle persone di fede, ma per i non-credenti ha comunque valore come libro sapienziale.
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. (Gen 2,15)
Questo incarico Dio lo affida all’uomo prima del peccato originale.

Quindi secondo la Bibbia il lavoro non è un castigo, ma un progetto insito nella natura dell’uomo.
Anzi il testo sacro si spinge più in là, in quanto nel salmo afferma:
Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie.
Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene
. (Sal 127, 1-2)
Si annuncia una beatitudine e il primo esempio di questa beatitudine è esattamente il vivere del proprio lavoro.

Ciò che viene chiamato “beatitudine” non è il possedere qualcosa o il fare qualcos’altro, ma è uno stato interiore particolarmente appagante, tale che non se ne preferirebbe un altro.
È il sentirsi “a posto”, al posto giusto, non solo per aver scongiurato l’umiliazione di mendicare o di rubare, ma perché ci si sente al proprio posto, di persona che ha esplicato le proprie potenzialità, che arricchisce la società umana col proprio contributo e, in un certo senso, che concorre all’armonia cosmica avendo occupato, nel vasto universo, quella determinata posizione che gli è riservata.

Poiché ciò che chiamiamo “dignità” è il corredo di attributi che ineriscono alla natura dell’oggetto, quando l’oggetto considerato è la persona umana possiamo dedurre facilmente che il lavoro è inscindibile dalla dignità umana.

.3 Lavoro, pace, libertà.

Ho parlato del lavoro come un’attività che qualifica la persona umana, ma ciò non toglie che sia il mezzo necessario per soddisfare i propri bisogni, a cominciare da quelli per la sopravvivenza.
Trovarsi in una condizione in cui non si può lavorare, può significare di dover scegliere tra delinquere o morire. Altrettanto grave è la situazione per cui, anche lavorando, non si riescono a soddisfare i bisogni primari (ad esempio coltivare una terra infertile) e questo secondo tipo di problema, quando coinvolge una comunità, la rende aggressiva, nomade, pronta alla violenza.

Nel pieno della prima guerra mondiale, nel 1917, l’economista Silvio Gesell tenne una conferenza sulla pace e pronunciò le seguenti parole:  pace e libertà sono sinonimi ed è veramente libero solo l’uomo che possa modificare la sua posizione economica, col suo proprio lavoro ed in funzione dei suoi fabbisogni.
Se il lavoro nel suo aspetto materiale può essere classificato come attività puramente economica, nelle sue implicazioni umane è però un elemento squisitamente politico, che può condizionare tutta la convivenza civile (o meno civile).
Così Federico Caffè, l’economista della Costituzione italiana:  oggi lo Stato non si è ancora reso conto che l’assolvimento efficace del suo compito di occupatore di ultima istanza è condizione stessa non della sopravvivenza del sistema economico, ma della sopravvivenza di un assetto democratico.

Un sistema politico ordinato si basa sulla ripartizione razionale delle mansioni, ciò significa che è in grado di assegnare a ciascuno un compito utile al benessere della società.
E la prima declinazione di questa capacità di assegnare compiti sta ovviamente nel saper offrire a ciascuno un lavoro, il suo lavoro.

.4 Lavoro e occupazione.

Contrapponendo lavoro e occupazione si intende qui distinguere tra l’aspetto oggettivo dell’attività lavorativa, da quello soggettivo.
Lavoro quindi è l’attività che si svolge per produrre beni e prestare servizi necessari, utili, o piacevoli, ciò che con un’unica espressione definiamo “creare ricchezza”.
L’occupazione è l’ottenimento, da parte dell’individuo, di un compito da svolgere, un “posto” riconosciuto e con ciò retribuito.

Esiste un piccolo paradosso lavoro-occupazione in quanto il lavoro, quindi la preoccupazione di procacciarsi il cibo, di vestirsi, abitare, produrre mezzi di trasporto e tutto il resto viene addebitata ai privati: come dire: “la gente sa di cosa ha bisogno, se lo faccia”; mentre l’occupazione che è l’aspetto individuale e soggettivo del lavoro, per i suoi risvolti politici, viene sovente annoverata tra le responsabilità dello Stato.

Sono prospettive che non possono coesistere e comunque discutibili, anche prese singolarmente.
I privati, poiché ragionano individualmente e agiscono per tornaconto personale, non sono i soggetti più indicati a decidere  (il più delle volte inconsapevolmente) quale sia la ricchezza necessaria: lo dimostra la corsa alle professioni più remunerate (si pensi alla pletora degli avvocati, sacerdoti del litigio) e la penuria di offerta che talora si genera in certi settori per qualche ragione meno ambiti, ma non per questo meno necessari.
Viceversa lo Stato non può prendersi in carico l’occupazione senza produrre niente, altrimenti sarà costretto a far scavare una buca e poi riempirla (allocuzione che metaforicamente vale per mille attività, “socialmente utili” -davvero?- o burocratiche).

.5 Divisione del lavoro e concorrenza.

Come ho ripetuto in molte occasioni, la divisione del lavoro è l’unica fonte di prosperità, nel senso che aumenta a dismisura la creazione della ricchezza.
È celebre in proposito un brano di Adam Smith nel “Abbozzo della ricchezza delle nazioni” in cui mostra la differenza tra produrre aghi da soli, svolgendo tutte le mansioni dall’estrazione mineraria fino ai particolari finali, oppure in squadre di operatori organizzati e specializzati.
Un uomo solo, dice Smith può produrre uno spillo in un anno, mentre diciotto persone che suddividono adeguatamente il lavoro possono fabbricare 36.000 spilli al giorno.
E qui, proprio come farebbe un ingegnere o anche un solerte scolaro delle elementari di fronte a un problema di aritmetica, Smith divide la produzione annua per il numero degli operatori e conclude che ciascuno produrrebbe seicentomila volte tanto.

La realtà, vista con la giusta pignoleria, è che nessuno dei diciotto ha prodotto neanche uno spillo, ma ciascuno ha prodotto, tantissime volte, un modesto sottoinsieme dello spillo, scaturito dall’operazione particolare che ha svolto.
Gli spilli sono stati prodotti soltanto dalla squadra nel suo complesso e la produttività individuale è una mera astrazione: il risultato complessivo è “come se ciascuno avesse prodotto tot”.

Questa osservazione fondamentale implica che l’economia è un’attività di natura essenzialmente collettiva che quindi si gioverebbe al massimo dello spirito di squadra e di unità del gruppo per avere successo.
Ma, ci raccontano, la concorrenza accresce l’efficienza economica.
Quindi se le diciotto persone fossero in competizione costante, intente a farsi la forca l’un l’altra renderebbero di più?
O se andassero al lavoro con lo stress costante di essere sostituiti da un nuovo operaio migliorerebbero il rendimento?
O se dovessero lavorare sempre di più e guadagnare di meno per reggere la concorrenza di altre aziende che efficienza migliorerebbe? Dal punto di vista dell’acquirente sicuramente, ma dal loro punto di vista di produttori il lavoro sarebbe molto inefficiente.

La divisione del lavoro presuppone un gruppo coeso che suddivida: in una famiglia il concetto è evidentissimo, si suddivide il lavoro per stare tutti meglio; l’idea di escludere un membro e di emarginarlo dalla famiglia perché è meno efficiente di altri non è nemmeno contemplata.
La città e la nazione dovrebbero agire in base a un principio simile anche se inevitabilmente mitigato.

Ma la collaborazione (che questo significa dividere il lavoro) in stato di guerra economica è un controsenso.
Il colmo della follia si ha quando si predicano i vantaggi della suddivisione internazionale del lavoro, come se la comunità-mondo decidesse di collaborare per accrescere la ricchezza di tutti in fratellanza universale, e nello stesso momento si applicano sanzioni, embarghi, si effettuano bombardamenti e si minacciano guerre termonucleari totali.

.6 Remunerazione del lavoro.

Una volta adottato, il regime di divisione del lavoro diventa irreversibile (e lo è dalla notte dei tempi) perché abbandonarlo significherebbe tornare da uno stato di abbondanza assoluta a uno stato di povertà assoluta.
L’aggettivo “assoluto” si riferisce al totale delle merci e dei servizi prodotti e l’ho introdotto perché comunque esistono stati di povertà relativa: ovvero il sistema genera  beni in quantità sufficiente per tutti ma alcuni non ne possono usufruire.
La remunerazione del lavoro avviene attraverso dei titoli di proprietà in bianco (riferibili a qualunque tipo di merce) detti “denaro” che funzionano nel seguente modo: ciascuno senza eccezioni (vale anche per gli imprenditori), cede tutto il suo lavoro in cambio di denaro; spendendo questo denaro potrà appropriarsi di una piccolissima frazione, a piacere, del lavoro di tutti gli altri.

La quantità di denaro che si riceve in cambio del proprio lavoro, che sia in proprio o subordinato, è frutto di contrattazione ed è soggetta alla legge della domanda e dell’offerta.

Ciò che è essenziale sottolineare è che in un regime di divisione del lavoro è obbligatorio avere del denaro per vivere, alternative non ce ne sono.
Il modo normale di procurarsi del denaro è lavorare.

Faccio notare che il denaro diventa un fine necessario del lavoro, mentre la dignità della persona e la sua realizzazione diventano finalità accessorie, in contraddizione con la definizione iniziale di lavoro che avevamo proposto.
Ma c’è di più, paradossalmente diventa accessoria la completezza economica, cioè la creazione di un monte-ricchezza sufficiente per tutti, perché guadagnare dei soldi significa acquisire la proprietà individuale della propria quota ricchezza.
Detto nei termini iniziali, la remunerazione in denaro del lavoro incentiva la ricchezza relativa (individuale) ma non esercita nessuno stimolo particolare sulla crescita della ricchezza assoluta (totale).

.7 Distribuzione dei beni e occupazione.

Tutti coloro che lavorano ottengono in cambio dei titoli di proprietà in bianco (denaro).
Quando vogliono qualcosa, consegnano un titolo al proprietario di una merce e con ciò avviene uno scambio: uno si priva della merce e acquista un titolo di proprietà, l’altro si priva di un titolo di proprietà e acquista una merce; il fenomeno in termini generali è detto mercato.
La domanda di merci si esercita in denaro, gli altri generi di domanda (baratti o merce contro lavoro) avvengono in quantità assolutamente trascurabili.

Poiché in regime di divisione del lavoro per vivere è obbligatorio procurarsi denaro, nessuno vuole lavorare senza remunerazione, perché impiegherebbe tempo e sforzi senza ottemperare alla necessità primaria per il sostentamento.
Questo significa che se non avvengono scambi denaro contro merci, neppure si lavora, e poiché il lavoro è l’unica fonte della ricchezza (chiamo ricchezza solo quella reale, beni e servizi, la cosiddetta “ricchezza” in denaro la chiamo “reddito monetario” o “possesso monetario”) la ricchezza decresce.

La distribuzione della ricchezza attraverso lo scambio, cioè il mercato, è dunque condizione necessaria all’occupazione e in ciò si rivela il paradosso del mercato: quanto più la ricchezza viene distribuita, tanto più viene prodotta, quanto meno viene distribuita, meno viene prodotta.
È essenziale notare che la distribuzione avviene grazie al mezzo di scambio, cioè il denaro, per cui se per un qualunque motivo la circolazione del denaro si inceppa, ne risentono l’occupazione e la creazione di ricchezza.

Poiché la moneta (titolo di proprietà in bianco) è un ente giuridico, producibile a piacere a costi irrisori, dovrebbe essere massima preoccupazione dei gestori dell’economia fare in modo che tutti ne siano provvisti in quantità sufficiente, per evitare lo smacco di avere o poter produrre la ricchezza e doverla lasciare inutilizzata, mentre i cittadini che vorrebbero usufruirne ne sono impediti dalla mancanza di titoli legali.

.8 Il capitale.

La divisione e specializzazione del lavoro e che si avvale di potenti mezzi di produzione, non è scesa dal cielo fatta e finita, ma ha avuto un principio.
Solo osservando questo inizio saremo in grado di capire cosa sia realmente il capitale.

Partendo da una comunità di dieci cavernicoli che cacciavano con la clava, il giorno in cui divennero così bravi da procurarsi in nove il cibo per dieci si dissero: oggi cacciamo in nove e diamo una razione di cibo al decimo per andare a scoprire il fuoco.
Con l’avvento del fuoco in breve le cose andarono così bene che furono sufficienti sette cavernicoli a procurare il cibo per tutti, e gli altri tre furono impiegati per inventare la ruota…

Il capitale reale dunque non è altro che l’insieme delle scorte di merci che vengono usate per mantenere quel gruppo di persone che avvia una nuova impresa, al fine di accrescere la ricchezza.
Come si nota dall’esempio, il capitale è un prodotto sociale e l’idea che possa essere un fatto individuale è insulsa e assolutamente falsa.
Magari un cavernicolo da solo avrebbe impiegato anni per accumulare la scorta necessaria a cercare il fuoco, magari, dato che il cibo deperisce, non sarebbe riuscito mai.

L’ultimo dettaglio introduce un nuovo argomento: il cibo deve essere fresco, se il cavernicolo avesse impiegato due mesi (o due anni!) a trovare il fuoco, non vi sarebbero state scorte utili.
Questo significa che capitale non è solo il surplus di merci presenti, ma lo è anche l’impegno a destinare a un certo scopo una quota delle produzioni future, impegno che può essere assunto da un sistema sufficientemente strutturato da poter ragionevolmente garantire questa promessa.
Quindi il capitale, oltre che reale, può essere virtuale.

E in cosa consiste il capitale virtuale? La risposta è di tre sillabe: fi-du-cia.
Fiducia del sistema di produrre quanto serve, fiducia di chi intraprende di accrescere la ricchezza, fiducia di tutti gli attori coinvolti di ottenere dei benefici.
La fiducia viene sancita consegnando dei titoli di proprietà in bianco (denaro) ai gestori della nuova impresa.
Il termine capitale dunque assomma le scorte di merci presenti e le abilità organizzative e tecnologiche necessarie a produrle anche in futuro.

Esistono dei diritti di proprietà sul capitale, che sono stati introdotti quando i cavernicoli da dieci sono diventati cento e solo trenta hanno mantenuto gli inventori dell’arco e della freccia, pertanto i benefici sono stati ripartiti solo fra quei trenta che vi hanno partecipato.
Tuttavia, anche in presenza di questi titoli, il capitale non è di nessuno di costoro, ma è stato prodotto dallo sforzo comune, pertanto la sua proprietà deve essere collettiva e la gestione deve esserne fatta con responsabilità sociale.

.9 Imprenditoria.

Le aziende sono agglomerati di produzione e scambio merci.
Se dal punto di vista fisico la produzione è un atto insostituibile e fondamentale, dal punto di vista del mercato l’imprenditore svolge lo stesso ruolo del grossista, con l’unica differenza che anziché comprare le merci le auto produce.

Nell’attività aziendale compare la figura del lavoratore dipendente.
Questi rinunzia a rivendicare il principio che ciò che uno produce è suo, in cambio di una remunerazione certa.
Del resto, nel paragrafo sulla divisione del lavoro, ho mostrato sopra come in un gruppo produttivo non ci sia nessuno che fabbrichi assolutamente niente da solo, pertanto sarebbe assai problematico conteggiare ciò che ciascuno ha prodotto.

L’imprenditore dunque si fa carico del rischio a nome di tutto il personale coinvolto e svolge il ruolo di garante della remunerazione dei dipendenti.
Il termine “rischio di impresa” generalmente non è compreso nel suo significato pertanto lo illustro.
L’imprenditore prende a prestito (normalmente non ne è proprietario) il capitale necessario per avviare il lavoro; in altre parole un cittadino chiede alla società la possibilità di usare una parte del suo surplus reale e fiduciario per avviare una nuova attività che fornirà merci alla società stessa.
Se la comunità approva ciò che è stato fatto, comprando le merci della nuova azienda, il capitale verrà restituito, cioè sarà messo a disposizione di nuove imprese.

Ma se la nuova impresa fallisce cosa succede?
Le scorte reali usate per il mantenimento del personale sono state consumate, senza contropartita, mentre l’impegno fiduciario cessa al momento del fallimento.
Tornando alla metafora dei cavernicoli, il decimo ha cercato il fuoco senza trovarlo, quindi si rimetterà a cacciare con la clava.

Si può dire che il capitale è andato perduto, e che questo è un danno?
Sono state consumate delle scorte, ma nessuno si è privato di nulla per fare questa concessione, del resto il personale della nuova azienda avrebbe mangiato e consumato egualmente per vivere… certamente si può dire che la società ha sprecato delle risorse che avrebbe potuto impiegare in modo più fruttuoso, ma non che abbia subito un danno positivo.

Proviamo viceversa a pensare il caso di un’azienda che “produce” gioco d’azzardo (la scelta dell’esempio non è casuale e serve a introdurre un successivo argomento).
Ogni gioco d’azzardo funziona come una riffa: cioè i clienti creano un monte premi con la loro quota di partecipazione, e il vincitore incamera i soldi forniti da molti perdenti, mentre una parte resta all’organizzatore (che dunque “vince” sempre).
Ciò che risulta chiaro è che un simile meccanismo non produce nulla di tangibile (è un gioco a somma zero), dunque cosa vende?

Vende illusione, l’illusione di arricchirsi senza lavorare, o meglio ancora, poiché la vera ricchezza proviene solo dal lavoro, è l’illusione di non dover far niente mentre altri lavorano per te.
Questo caso, al contrario di un’azienda produttiva, genera un danno reale positivo: non solo le risorse che potevano essere impiegate utilmente vengono sprecate per fare dei giochi che rincretiniscono (la slot-machine, la roulette sono meccanismi demenziali, che il giocatore subisce passivamente senza coinvolgimento o esercizio di alcuna abilità; fra tanti giochi di carte esistenti che stimolano l’ingegno o la memoria, per l’azzardo si usano i più stupidi come il poker) ma si creano dei danni sociali attraverso dipendenze e gente che si rovina.
E quanto più è florido il bilancio della casa da gioco, tanti più danni produce.

Questa contrapposizione dimostra diverse cose.
Primo: che la ricchezza relativa (la  crescita di possesso individuale) non è un buon criterio per valutare l’impiego di capitale, perché questa può incrementarsi tramite l’impoverimento degli altri.

Secondo: che la finalità dell’impiego è molto più importante rispetto alla probabilità di successo; tornando dai cavernicoli, meglio mantenerne uno per un anno affinché trovi il fuoco o un altro per un giorno per raccogliere margherite? La raccolta di fiori avrebbe avuto un esito quasi certo, ma serviva? Quindi quando si parla di eticità dell’investimento riferendosi, in termini di possesso, alla garanzia di rientro del prestito, non si è capito niente di cosa sia un investimento.

Terzo, che poiché la crescita della ricchezza (reale) può essere valutata solo in modo olistico,  i singoli operatori non sono in grado di affermare se hanno concorso al bene economico della nazione; neppure il consenso della società attraverso l’acquisto delle merci di un’azienda è garanzia che essa sia realmente utile.
Pertanto il mercato degli investimenti non è in grado di auto regolarsi e ha bisogno di essere governato dall’esterno.

.10 Finanza.

La finanza è l’attività che capitalizza il risparmio per destinarlo all’investimento.
In cosa consiste  il lavoro della finanza, cioè quale servizio specifico offre?
Si tratta di farsi dare dei soldi? No, lo fanno anche gli accattoni.
Si tratta di farsi dare dei soldi in cambio di promesse? No lo fanno anche i truffatori.
L’unica autentica utilità della finanza, che permette di qualificarla come lavoro, sta nella gestione dell’investimento strategico.

E qui si manifesta la contraddizione con la prassi finanziaria attuale.
Si è diffusa l’idea che la finanza possa essere un’attività individuale e a scopo di lucro.

Se si è compreso che il capitale è un prodotto sociale, ancorché gestito da uno “specialista”, non può essere usato per scopi privati senza l’approvazione preventiva della società.
Ma il punto essenziale è il secondo, lo scopo di lucro privato è in perfetta antitesi con lo scopo strategico della finanza.
Scopo strategico significa mirante ad accrescere la ricchezza assoluta, mentre lo scopo di lucro consiste nell’accrescere le proprietà del singolo, cioè la ricchezza relativa (e apres moi, le deluge), che di strategico non ha assolutamente niente.

Attualmente la finanza è ormai quasi totalmente autoreferenziale, infatti di 100 denari investiti, 1 va all’economia reale (la ricchezza) e 99 vanno in scommesse finanziarie (le illusioni del casinò).
Se si pensa che per comprare e rivendere milioni di volte le stesse cose, quelle designate dai titoli finanziari, si utilizza un apparato imponente e si impiegano molte delle menti migliori, si comprende come, di gran lunga, la finanza sia il più colossale spreco di risorse mai esistito.
Piange il cuore all’idea che giovani brillanti che avrebbero potuto studiare la cura contro il cancro, trovare nuove fonti di energia, creare capolavori cinematografici o costruire astronavi all’elio, siano invece dediti alla matematica finanziaria: un’attività identica nel significato all’elaborazione del “metodo” per vincere alla roulette o allo chemin de fer.

L’attuale finanza poi è un sistema integrato che comprende la fabbricazione del denaro, la gestione della circolazione, la raccolta di capitale e l’investimento.
In pratica si tratta di una cerchia di persone che detengono tutto il potere monetario e si fanno strapagare per decidere quanto non darne; poiché in effetti non esiste altro limite di senso per il fiat money che la presenza di risorse da attivare, ma se l’offerta fosse molto abbondante la domanda di denaro calerebbe e, con essa, l’importanza e gli emolumenti dei gestori.

Ovviamente è il lavoro che dà senso al denaro: se non ci fosse qualcuno a lavorare e produrre non ci sarebbe niente da comprare e il denaro non servirebbe a nulla.
Ma il denaro, fermo, può impedire il lavoro, e i gestori finanziari, sospinti dal principio del lucro, (arricchimento relativo) sfruttano questo potere ricattatorio e impoveriscono la società attraverso l’imposizione di una quota di disoccupazione forzata.
È celebre il passo di Keynes sull’incubo del contabile (le cose non si fanno se non “rendono”) che mette in luce come in mancanza di un sicuro arricchimento privato e relativo dei gestori finanziari si preferisca un impoverimento generale e assoluto.

Quindi la finanza privata a scopo di lucro è il principale ostacolo all’occupazione e per dare equilibrio al ciclo lavoro-prosperità deve essere eliminata totalmente.
Ripeto, l’unico intervento sensato nei confronti della finanza privata a scopo di lucro è quello di sopprimerla e non farla mai più esistere.

.11 Disoccupazione.

Come è possibile che esista disoccupazione forzata, cioè che delle persone siano impedite di lavorare?
Nel sistema di divisione del lavoro nessuno è autosufficiente. Tutti producono una sola cosa, o più spesso, come ho spiegato nell’esempio degli aghi di Adam Smith, un frammento di qualcosa.
Il meccanismo è dunque siffatto: tutti i lavoratori concorrono a creare un unico monte di ricchezza; successivamente, attraverso il denaro, ciascuno se ne appropria di una parte a scelta, determinata quantitativamente dall’entità della sua retribuzione monetaria.
È dunque sufficiente che venga a mancare la remunerazione monetaria del lavoro, per rendere relativamente inutile l’occupazione (relativamente alle persone non pagate, perché in assoluto il lavoro sarebbe utile).

Ma un disoccupato potrebbe lavorare in proprio e mantenersi consumando ciò che autoproduce?
In effetti è quasi impossibile: per mancanza di competenze (gli uomini di oggi non vengono educati per vivere come dei Robinson Crusoe) mancanza di proprietà (ad esempio terre da coltivare, essendo l’opzione “terra libera” pressoché scomparsa) e infine per la presenza di una selva di vincoli burocratici per ottemperare ai quali occorre comunque disporre di denaro.
La forza della situazione, soggettiva e oggettiva, e della legge, vietano di fatto il lavoro a chi non sia inserito nel sistema.

Quindi chi cerca lavoro ha due alternative: o essere assunto o aprire un’impresa in proprio.
Entrambe le situazioni sono legate all’impiego del capitale, sia per avviare un’attività, sia per andare a lavorare nell’impresa aperta da qualcun altro.
La disoccupazione forzata è quindi funzionale alla compressione della remunerazione monetaria (persone che guadagnano zero, si accontentano di poco o pochissimo piuttosto che niente) e, specularmente, serve a migliorare la remunerazione del capitale (l’abbassamento del costo del lavoro permette all’imprenditore di pagare gli interessi).

La condizione del disoccupato consiste innanzitutto nella deprivazione della dignità personale, secondariamente nella difficoltà di mantenimento, in terzo luogo nella sua esclusione dalla società attiva a cui non può conferire il suo contributo.
È attraverso la disoccupazione forzata che si produce quella che è stata giustamente denunciata come “cultura dello scarto”, cioè classificare le persone come inutili, che non servono e sono di troppo.

.12 Visione accademica della disoccupazione e suo rimedio.

Con una semplificazione grossolana, si dice che il costo del lavoro determina il prezzo di vendita delle merci.
In realtà esistono almeno cinque voci principali che vanno a costituire il prezzo della merce e sono: le materie prime, il lavoro, le tasse gli oneri finanziari e l’utile.
Alcuni economisti, in spregio ai fatti, considerano addirittura l’utile come quota fissa, ma in realtà tutte e cinque queste voci sono potenzialmente modificabili.

E naturalmente tutte incidono sul prezzo; non mi dilungo in argomenti scontati, ricordo solo, a proposito degli oneri finanziari troppo spesso sottovalutati, che gli interessi pesano non poco anche quando sono formalmente bassi, perché quasi tutte le aziende usano il “castelletto” (l’anticipo delle fatture) su cui la banca applica tassi che sovente raggiungono la soglia dell’usura; inoltre parte delle tasse serve a pagare interessi sul debito pubblico, per cui una quota dell’onere finanziario è nascosto in quello fiscale sotto mentite spoglie.
Si diceva dunque che le voci principali nella formazione del prezzo sono cinque; la domanda allora è: perché se ne considera una sola?

Innanzi tutto non si può costringere il capitalista a prestare i suoi soldi ( anche se normalmente i prestiti sono fatti con soldi altrui), pertanto senza gratificarlo l’azienda neppure verrebbe avviata;
lo Stato ha un potere contrattuale solitamente molto più forte di quello degli imprenditori e quindi non si riesce a influire sulle tasse; le materie prime di solito provengono da Paesi poveri e sfruttati, dunque è difficile comprimerne ulteriormente i prezzi; resta il lavoratore, che è più facilmente condizionabile attraverso la minaccia della disoccupazione: è l’unico che l’imprenditore può prendere per il collo.

La risposta dunque è che il costo del lavoro viene additato come diretto responsabile dei prezzi, per la semplice ragione che è l’unica voce che si riesce a modificare a partire da una posizione di forza.
Insomma si è scelto il bersaglio del costo del lavoro per pusillanimità, comodità e per aver adottato come preferenziale il punto di vista del capitale.

Vi è una scuola economica ampiamente seguita che parla di “disoccupazione naturale”, descritta come quella percentuale di inoccupati funzionale a mantenere un equilibrio fra occupazione, salari, prezzi e domanda aggregata; qualcuno segue persino la tesi (mai dimostrata) del NAIRU, una sigla che designa il tasso di disoccupazione necessario a impedire la crescita dell’inflazione.
La caratteristica di queste teorie consiste nel considerare le persone come mezzi per l’economia e non come fini della stessa, scegliendo così di sacrificare delle persone per il bene degli strumenti economici.
Come se per salvaguardare un paio di pantaloni si tagliasse una gamba.

La cura di queste idee fuorvianti sarebbe semplicissima: far provare sulla propria pelle a chi le professa le conseguenze pratiche delle stesse, nella condizione di “amputato” dalla società.
Basterebbe prendere il docente che insegna queste dottrine, licenziarlo in tronco e vietargli di lavorare per i successivi due anni: non c’è dubbio che in questo tempo di meditazione egli maturerebbe una visione dell’economia ben differente da quella a cui aveva aderito (ed è quasi sempre così) per conformismo e superficialità.

.13 Disoccupazione tecnologica e produttività.

Si parla di disoccupazione tecnologica quando il lavoro svolto da un certo numero di persone viene effettuato da una macchina: i lavoratori non servono più e vengono licenziati; e poiché sono specializzati nel lavoro obsoleto (giacché d’ora in poi lo farà la macchina) restano disoccupati.
Ecco che allora si indica come rimedio la riqualificazione di quei lavoratori, rendendoli abili a nuove mansioni tutt’ora svolte da umani, in modo da prospettare loro una nuova occupazione.
Tutto logico? Bisogna approfondire.

Immaginiamo una famiglia dove la mamma fa da mangiare, il papà cura il giardino, i bambini lavano i piatti e rifanno i letti.
Un giorno il papà ha l’ispirazione di una macchina che lavi i piatti, la mamma cura il giardino per lui il tempo necessario e il papà fabbrica una lavastoviglie.
A quel punto uno dei bambini si libera e andrà ad aiutare la mamma a cucinare, oppure si deciderà di comprare un cane e il bambino libero lo porterà a fare il giro mattutino.

I due esiti sono differenti: nel caso del bambino che aiuta la mamma la produttività è calata, poiché il lavoro che prima era fatto da un addetto ora è fatto da due. Nel caso che il bambino vada a curare il cane la produttività è stata mantenuta, la famiglia ha accresciuto il suo tenore di vita, ma lo ha fatto con un genere voluttuario, dato che tutti i lavori necessari si facevano anche prima.
In una famiglia il calo di produttività in seguito al rimpiazzo tecnologico del lavoro è una soluzione  accettabile, perché, suddividendo adeguatamente i compiti rimasti, tutti avranno più tempo libero.

Vediamo invece cosa accade nel vasto mondo.
Il calo di produttività è vissuto come un dramma in quanto perdita di competitività nei confronti della concorrenza, quindi non è ammesso.
Tuttavia i lavori che possono essere rimpiazzati con una macchina sono quelli più meccanicistici e ripetitivi, pertanto sorge immediatamente la domanda: come potranno gli addetti a questo genere di lavori riqualificarsi per compiti in senso lato voluttuari? Se essi avevano scelto un lavoro semplice, forse non avevano le doti per espletarne uno più complesso.
In generale, tutto ciò che è espressione di forza bruta e abilità fisiche sta venendo gradualmente sostituito da lavoro automatico o strumentalmente assistito, cosicché l’unico settore di impiego al sicuro dalla disoccupazione tecnologica è nel campo del pensiero strategico e sopratutto delle relazioni umane.

Al tempo stesso, anche se un sempre minor numero di addetti si occuperà delle produzioni di base (alimentare, case, vestiti, trasporti etc) non per questo tali generi diventeranno meno necessari; questo significa che in tempo di prosperità le altre occupazioni fioriranno, ma al minimo accenno di penuria (e/o rincaro) del necessario, la precarietà del terziario si manifesterà immediatamente con una drammaticità che potrebbe essere addirittura catastrofica.

Bisogna notare che ciò che impedisce alla nazione di comportarsi come una famiglia, cioè di accogliere l’innovazione tecnologica come opportunità di benessere, che può essere perseguito sì producendo nuove merci o servizi, ma anche producendo le stesse merci diminuendo l’orario di lavoro, è il fatto che le merci vengono vendute in regime di concorrenza sul prezzo.
Tale concorrenza può avere effetti antisociali, quando proviene da aziende straniere dove le condizioni di lavoro e l’ambiente sono meno tutelati, e quindi il prezzo risulta più basso perché nella  lista dei costi sono assenti delle voci che lo alzerebbero, costringendo le aziende autoctone o a diminuire le consimili tutele o a fallire.

Tuttavia, anche la concorrenza nazionale presenta dei problemi perché le aziende perdenti falliscono e alimentano costantemente il serbatoio della disoccupazione.
Fino a cinquant’anni fa questo processo era sufficientemente lento da permettere programmi di riqualifica e reimpiego dei disoccupati, oggi la velocità delle innovazioni tecnologiche e la quantità di automazione del lavoro rende tali processi caotici e problematici al punto da doversi chiedere se abbia ancora senso la concorrenza basata sul prezzo.

Un tempo l’azienda che produceva a prezzo più basso era quella che produceva meglio, perché meglio organizzata, più avanzata tecnologicamente, che sprecava meno… e valeva sopratutto in regime di contrattazione collettiva dei salari (altrimenti può risultare vincente l’azienda più capace di maltrattare e affamare i dipendenti).
Quindi la concorrenza fungeva da selezione per le aziende migliori.
Ma era un’epoca in cui la componente manuale del lavoro aveva ancora una parte preponderante.
Oggi la situazione è molto diversa e non si capisce perché non si possano adeguare i sistemi di gestione macroeconomica alle nuove realtà.

Abbiamo una tecnologia in evoluzione straordinaria, un’organizzazione del lavoro in costante modifica, una nuova consapevolezza sul ruolo delle relazioni umane anche sul lavoro (tutte cose profondamente cambiate negli ultimi lustri) e un sistema di mercato più o meno fermo a duemilacinquecento anni fa.
Forse il sistema antico non è più adeguato all’attività odierna.

.14 Chi incamera i benefici dell’innovazione e dell’aumento di produttività.

A rigor di logica vale il principio che chi crea qualcosa ne è anche il proprietario.
Abbiamo anche ricordato che esiste il lavoro dipendente: una condizione in cui il soggetto cede la proprietà di ciò che produce col suo lavoro in cambio di una retribuzione fissa.
Questa prassi, del lavoro dipendente, si è estesa anche nei confronti del lavoro creativo e scientifico, con la contestuale cessione dei diritti di proprietà intellettuale.

Cosa accade dunque all’inventore?
Egli ha scoperto un nuovo processo produttivo o ha inventato un nuovo prodotto, credete che attorno a lui si crei una catena di entusiastica solidarietà per sviluppare l’innovazione e arricchire l’intellettuale? Nemmeno per sogno.
Attorno a lui si radunerà un branco di sciacalli, che avendo intuito il potenziale valore commerciale della novità vorranno sfruttarla a loro beneficio.

L’inventore viene posto dinanzi al dilemma: o cedere il suo brevetto in cambio di uno stipendio o al più un bonus aggiuntivo (quindi a un prezzo molto basso rispetto al valore dell’innovazione), oppure mettersi in proprio e produrre il suo articolo.
Ma per seguire la via imprenditoriale dovrà andare a chiedere i soldi ai signori della finanza (quelli che gestiscono il denaro per decidere quanto non darne) i quali potrebbero optare di non finanziarlo oppure costringerlo a entrare in società con loro, in quota di minoranza.

Nei fatti si può constatare che al giorno d’oggi non esistono inventori-imprenditori, le eccezioni, per esempio quelle più famose della new economy digitale, riguardano mariti, nipoti, e familiari di vario grado di banchieri di alto livello: i vari Bill Gates, Zuckerberg e simili sono tutti introdotti per parentela nel mondo dell’alta finanza.
Del resto le 43.000 multinazionali più importanti del mondo sono di proprietà di un ristretto gruppo di società finanziarie: 147 secondo il noto studio dell’Istituto di Tecnologia Federale di Zurigo, in realtà ancor meno, perché entro questo gruppo diverse società sono possedute da altre.

L’imprenditore o commercializza un articolo completamente nuovo di grande successo, oppure sfrutta l’innovazione per produrre a un prezzo più basso, il che significa che aumenterà il suo margine di utile per un certo periodo, finché la concorrenza non si adeguerà.
In generale quindi l’innovazione tecnologica porta ad abbassare i prezzi, cosa che viene sovente indicata quale beneficio sociale, ma il finanziere lucra sugli interessi, che sommati alle quote di partecipazione dell’impresa e alla crescita del potere d’acquisto del suo denaro, grazie all’abbassamento dei prezzi, determinano una sproporzione di lucro incommensurabile con qualunque altra attività.

Non c’è dubbio che il grosso dei benefici dell’innovazione tecnologica e dell’aumento di produttività vadano ai signori della finanza.
Detto in altri termini chi disponeva di maggiori proprietà all’inizio del processo (ricordiamo che il denaro è un certificato di proprietà) se ne ritrova una percentuale maggiore alla fine.
È vero che grazie al progresso la ricchezza totale aumenta, ma finché si segue questo iter la percentuale di ricchezza in possesso dei ricchi continua ad aumentare e quella dei poveri a diminuire.

È altresì vero che molte innovazioni che sarebbero state di utilità generale e sarebbero state fisicamente possibili non sono state realizzate perché i capitalisti, troppo ricchi, non avrebbero saputo che farsene di ulteriori proprietà.
Detto con Keynes: se non “rende” la città dei sogni non si fa e si continua ad abitare nei tuguri.

Di sicuro quando la produttività cresce, ad esempio fabbricando 2000 pezzi all’ora quando prima se ne facevano 1000, nessuno consente al dipendente di lavorare meno ore per lo stesso stipendio; e neppure gli si concede un aumento, dato che produce di più.
Anzi spesso si licenzia del personale risparmiando sui costi, mentre i benefici vanno in parte all’imprenditore e per la maggioranza ai finanziatori.
E il susseguente aumento della disoccupazione provoca un calo della domanda, che renderà inutili le alte potenzialità produttive (non si producono merci per lasciarle invendute).

La ragione di questo paradosso sta ancora una volta nell’individualismo, impropriamente applicato ad attività collettive come l’economia e a entità sociali, come il capitale.
E infine è lecito chiedersi a cosa servano i ricchi, dato che si tratta di una condizione che, al pari di quella del povero, è psicologicamente e socialmente dannosa.

.15 Lo scenario presente.

Abbiamo affermato in linea di principio che il lavoro è un diritto-dovere individuale e anche sociale; nel senso che, per via della divisione del lavoro, la creazione della ricchezza avviene necessariamente col concorso di molti/tutti e pertanto conviene che la società sia strutturata in modo da favorire l’apporto lavorativo di tutti.
Finché si parla in linea di principio vi è una concordanza pressoché generale su questo assunto di partenza.

Tuttavia la realtà è in stridente contrasto con questo principio: da una parte i lavoratori vengono sottoposti a sempre maggiori richieste di produttività mentre gli stipendi calano e dall’altra la disoccupazione cresce inesorabilmente, colpendo i giovani in modo scandaloso.
A questa contraddizione si affianca il problema, ormai diffusissimo della sotto-occupazione: tantissima gente che fa “lavoretti” che non sfruttano le competenze acquisite, a orario parziale e a bassa remunerazione.

Non serve affannarsi nel ricercare le cause, perché quelle appena descritte sono le conseguenze più ovvie dei meccanismi descritti nel paragrafo precedente.

Infatti se la concorrenza è basata sul prezzo, un obiettivo di ogni azienda è far crescere la produttività, misurata in termini monetari.
Ma perseguendo tale forma di produttività (ho fortemente sottolineato la differenza tra la produttività fisica e quella monetaria qui:  https://www.maurizioblondet.it/mito-della-produttivita/) non si possono che ottenere risultati simili.
Infatti la produttività è il rapporto tra  quantità-ora prodotta/costo orario, dunque cresce alzando il denominatore (produzione oraria) e abbassando il denominatore (costo, quindi salario, orario).

E dato che per mantenere o innalzare la produttività monetaria l’orario di lavoro del singolo dipendente non diminuisce al crescere della produttività fisica (potenziata in modo decisivo dalle rivoluzioni tecnologiche), ne segue che i lavori necessari vengono svolti da un numero totale di addetti sempre più basso.
Perciò agli altri tocca scodinzolare dinanzi a coloro che godono di un reddito “sicuro” per invogliarli a mangiare al ristorante, dove li serviranno come camerieri, o per fornire loro assistenza sportiva o ricreativa, o per dare lezioni di ripetizione ai figli meno bravi a scuola.
Ecco qui i lavoretti.
E con la produttività crescente aumenterà il numero di coloro che debbono aspirare ai lavoretti, sempre meno pagati per eccesso di offerta.

Ma non si potrebbe impiegare la forza lavoro, liberata grazie all’apporto della tecnologia, per affrontare qualche grande impresa di utilità generale?
Faccio qualche esempio attinente all’Italia: la bonifica dei terreni inquinati, la messa in sicurezza antisismica di tutto il patrimonio immobiliare, l’abbattimento del comparto edilizio seriale a bassa qualità per sostituirlo con abitazioni nuove estetiche e funzionali, la riorganizzazione del turismo, il rinnovo efficiente del trasporto su rotaia, la razionalizzazione della spesa energetica, la ricerca…
Per tutte queste cose il personale c’è (anche quello qualificato che emigra per trovare lavoro) ma, dicono, non ci sono i soldi.

In realtà, come è ovvio, ci sono anche i soldi, semplicemente non vengono impegnati in queste imprese di utilità generale perché i benefici si coglierebbero solo nei tempi lunghi, misurabili almeno nell’arco di una generazione, mentre gli investitori vogliono guadagnare di più e subito: la città dei sogni non “rende”.
Quindi l’ostacolo sono, ancora una volta, i soldi, cioè il sistema monetario obsoleto che sempre più spesso si oppone alla razionalità (ne parlo qui: https://comedonchisciotte.org/crescita-decrescita/).
E naturalmente la finanza privata a scopo di lucro, in cui alla finalità dell’investimento strategico per il benessere di tutti si sostituisce la finalità dell’arricchimento privato e relativo (aumenta ciò che è mio e questo conta, anche se ciò che è di tutti diminuisce).

Fino a cento anni fa, quando per fare lavori necessari occorreva più o meno l’apporto di tutta la popolazione maschile, il sistema funzionava, con aggiustamenti e semplificazioni affidati al buon senso.
Negli ultimi cinquant’anni, con l’avvento di strumenti tecnologici sempre più potenti e con l’ingresso massivo delle donne nel mondo del lavoro, il buon senso e le correzioni a braccio sono diventati di gran lunga insufficienti.
Occorre pensare a una riforma generale del sistema.

.16 Il possibile scenario futuro.

Primo passo.
Invece che stabilire obiettivi di bilancio in termini monetari, lo Stato calcola una soglia minima di beni e servizi che devono essere prodotti nell’anno solare e il numero di ore lavorate che devono essere prestate al fine di garantire il benessere di base dei cittadini.
Questo monte ore di base è obbligatorio e viene assegnato suddividendolo tra coloro che svolgono quei lavori per professione abituale e tra i disoccupati o sotto occupati.
Nel caso detti lavori necessitino di competenze, corsi specifici verranno tenuti per abilitare i disoccupati alle professioni assegnate.
Naturalmente le ore dei corsi e il lavoro delle agenzie, che favoriranno l’incontro tra le capacità naturali dei cittadini disoccupati con le necessità professionali della Nazione, dovranno essere calcolate nel monte ore di base.


Dividendo il monte ore per il numero di persone abili al lavoro, uscirà l’orario di lavoro standard annuo che ciascuno deve prestare.

Secondo passo.
Si abolisce il denaro nella forma attuale, autosussistente e lo si rimpiazza con una camera di compensazione nazionale.
Attualmente vige il principio di liquidità (ciascuno ha zero crediti, zero debiti e soldi in tasca/banca) che andrebbe sostituito col principio di compensazione (tutti hanno debiti e crediti e una volta all’anno bisogna raggiungere il saldo zero).
In questo secondo caso occorre necessariamente una gestione che tenga in memoria debiti e crediti quantificati secondo un’unità di misura che corrisponde alla valuta, ma alla fine di ogni anno si deve raggiungere il saldo zero (come se tutto il “denaro” della Nazione svanisse) in modo che non vi sia accumulo monetario o attività finanziaria fine a se stessa, ma solo generazione di crediti contestualmente allo scambio di beni e servizi, cioè prodotti del lavoro.

In base alla professione che uno esercita e allo storico precedente, a ciascuno viene assegnata una soglia di indebitamento che non può oltrepassare. Quando il cittadino la raggiunge e non può più spendere o riesce a procurarsi crediti con il suo lavoro di mercato, oppure scatta la corvée  di lavoro coatto.
Questo significa che chi riuscisse a trovare solo lavoretti con cui non si mantiene, riceverebbe una quota occupazionale integrativa organizzata dallo Stato. Naturalmente il cittadino resterebbe libero di abbandonare il lavoretto e adottare l’occupazione statale a tempo pieno, ma senza obblighi in modo da garantire la massima flessibilità del sistema.

Dei crediti verrebbero assegnati anche al lavoro specificamente femminile, con premi-nascita (variabili a seconda delle necessità demografiche) e stipendio a quelle donne che desiderano dedicare il loro impegno alla famiglia come casalinghe.
(Una riflessione meritevole su questo tema l’ho trovata qui:

Terzo passo.
Le aziende private aboliscono lo stato patrimoniale dal bilancio.
Se non riescono ad arrivare a saldo zero a fine anno, interviene lo Stato che, a seconda delle valutazioni di efficienza, necessità strategica e prospettive dell’azienda, decide per un aiuto sussidiario temporaneo, una ristrutturazione in cui subentra in qualità di socio, oppure la chiusura.

L’avviamento di nuove imprese private è sottoposto ad approvazione statale per una valutazione dell’utilità delle stesse.
In caso di esito positivo lo Stato fornirà i crediti necessari all’avviamento, a fronte di un piano di rientro concordato con l’imprenditore.
La nuova imprenditoria privata finanziata dallo Stato può riguardare solo piccole aziende, perché quelle grosse sono strategiche e rientrano perciò nel caso descritto al quinto passo.
Naturalmente qualunque azienda privata può essere avviata come associazione di lavoratori, dotati di risorse proprie.

L’assenza di disoccupazione e i salari statali fungeranno da soglia per il salario minimo, sarà posto anche un tetto per gli introiti dell’imprenditore. Gli utili di impresa non reinvestiti (oltre il tetto consentito all’imprenditore) verranno prelevati sotto forma di tasse, lo stesso avverrà per i lavoratori autonomi.

Quarto passo.
Per tutti quei prodotti che bisogna importare, si calcola il monte ore necessario per produrre i beni che costituiranno le corrispondenti esportazioni a pareggio della bilancia commerciale.
In realtà non occorre nessun bilancio preventivo se per lo scambio con l’estero si adottano camere di compensazione internazionali (che ho illustrato qui https://www.maurizioblondet.it/la-camera-compensazione-nel-commercio-internazionale/) che si autoregolano.

Quinto passo.
Lo Stato individua delle attività strategiche che devono essere avviate o promosse nella Nazione: può accadere per sostituire importazioni inutili e troppo costose o semplicemente per necessità di benessere dei cittadini.
In questo regime futuribile non esisterà il problema dei soldi per l’investimento, perché lo Stato erogherà tutti i crediti necessari contestualmente alla realizzazione delle nuove opere.
La spesa dell’investimento consisterà nell’aumento delle ore di corvée per le attività standard, in modo da liberare risorse lavorative per le nuove imprese.

.17 Funzionamento e significato dello scenario futuro.

Il sistema descritto al punto precedente costituisce un programma di ritorno alla realtà.
Se nel modello presente è obbligatorio avere del denaro, perché grazie al potere virtuale del denaro ci si possono procurare le cose necessarie, con tutte le storture macroeconomiche che il denaro tradizionale comporta, il modello futuribile privilegia direttamente i beni e i servizi e il lavoro che concretamente (e non virtualmente) serve a produrli.

La finanza privata sarà abolita, i lavori amministrativi e di contabilità saranno ridotti all’osso, pertanto si libereranno molte risorse umane che verranno destinate a mestieri più utili.
Le banche non serviranno più; tra l’altro già oggi le banche fra loro lavorano a compensazione, mentre ai clienti applicano il principio di liquidità (calcolato a giornata), per cui è possibile interpretare il lucro bancario degli interessi come il differenziale tra la compensazione e la liquidità,
sfruttato come rendita di posizione da parte di un cartello di privati.
Abolendo il principio di liquidità anche questo lucro cesserà.

Come funzionerà il mondo del lavoro? Assicurando l’occupazione a tutti l’aspetto competitivo svanirà?

Immaginiamo un giovane che va a scuola e sviluppa delle preferenze, a un certo punto si orienterà verso una professione e potrà o avere successo, venendo assunto o assicurandosi un reddito autonomo, oppure no.
Oggi cosa accade per un aspirante professionista che non ha successo? O resta disoccupato, attendendo una grande occasione, o accetta dei lavoretti, possibilmente nel suo settore (tipico il caso degli artisti).
In quella condizione, non solo il suo iter professionale è bloccato, ma anche quello umano, ad esempio non ha le risorse per mettere su famiglia o comunque per condurre un’esistenza autonoma.
Nel caso il suo settore non presenti opportunità (magari perché è troppo pieno) si ritrova costretto a perdere altro tempo importante per riqualificarsi, magari senza certezza di successo occupazionale.

Nel nuovo sistema invece l’insuccesso nell’ottenere l’occupazione prescelta può essere gestito continuando a praticare nel settore preferito, acquisendo magari un reddito parziale, e integrando i crediti con le necessarie corvée di lavoro organizzato dallo Stato.
Un vantaggio annesso all’impegno dello Stato come occupatore di ultima istanza è quello che i corsi di formazione e riqualifica non sarebbero prestati alla cieca, ma dedicati espressamente all’occupazione a cui il candidato è stato destinato.

Emerge contestualmente un altro aspetto del nuovo sistema: nel vecchio modello si lavorava per avere molto denaro e con esso concedersi degli sfizi nel tempo libero, nel nuovo modello la competizione avviene direttamente per passare il proprio tempo, anche quello dedicato alla professione, nelle attività preferite.
Poter dedicare più tempo alle occupazioni che si amano o aver più tempo libero da spendere in relazioni umane positive, come quelle familiari, è un privilegio che anche i più alti redditi monetari concedono raramente.

In questo modo si depotenzia fortemente il ruolo del denaro come motivatore universale, ottenendo al tempo stesso una decisa riduzione della criminalità, molto spesso legata a questo aspetto.

È giusto che chi lavora di più, per qualità e/o quantità sia remunerato di più, tuttavia la sperequazione tra gli stipendi minimi e massimi dovrebbe essere contenuta entro un fattore tre o al massimo cinque.
Ma non bisogna dimenticare che un premio importante al lavoro svolto meglio è proprio quello di poterlo praticare come occupazione primaria: si pensi che significato ha questo aspetto per scienziati sportivi e artisti, ma anche per molti imprenditori!

In un tale sistema, in cui tutti hanno un reddito, la funzione delle tasse diventa marginale e serve soprattutto per il sistema pensionistico, poi come assicurazione per i casi sfortunati (malattie prolungate o invalidanti) e infine per impedire ai privati di arricchirsi troppo, mettendosi così in una condizione diseducativa.

Fin qui si è completamente trascurato il ruolo del risparmio, che nel sistema vigente è decisamente sopravvalutato.
È ovvio che dovendo raggiungere il saldo zero alla fine di ogni anno non esisterà risparmio monetario. Sarà comunque possibile acquistare titoli per la prestazione di servizi futuri (ad esempio assistenza agli anziani) o beni materiali.
L’ampliamento qualitativo e quantitativo delle proprietà potrà fungere da scorta di sicurezza.

Ma in generale non si riflette mai sul fatto che il risparmio monetario possa esercitare la sua funzione se e solo se i servizi richiesti nel futuro saranno disponibili; e perché lo siano è indispensabile che il sistema produttivo sia florido ed efficiente.
Una seconda riflessione che si trascura sempre è che, a parte l’uso previsto del risparmio, per il sostentamento in vecchiaia, l’uso imprevisto è legato in massima parte alle disavventure occupazionali.
Quindi il regime di piena occupazione garantita eliminerà il bisogno di risparmio dovuto all’incertezza del reddito, e il sistema produttivo solido e abbondante garantirà la presenza dei servizi richiesti per la vecchiaia.

Il raggiungimento del saldo zero a fine anno implica da una parte che tutti debbono coprire le proprie spese con un corrispondente lavoro, ma dall’altra che tutti i propri guadagni devono essere spesi; si suppone infatti che chi dovesse giungere alla data di bilancio con dei crediti all’attivo li perderebbe tutti.
Spendere tuttavia significa pagare il lavoro altrui, quindi questa prassi sarebbe benefica per mantenere attivo il mercato privato, portatore di creatività e flessibilità.
E significa anche che chi ha guadagnato producendo le merci necessarie, dovrà acquistare anche le merci e i servizi più “voluttuari”, liberando così il terziario dalla sua endemica precarietà.

Non può sfuggire che un simile sistema sarebbe di impronta socialista (cosa che si addice alla natura sociale dell’economia), ma non per questo statalista, o comunque non solo statalista.
In questo modello ho riservato allo Stato la gestione della finanza, anche se è possibile elaborare strumenti finanziari aperti all’iniziativa privata senza che questi snaturino la finalità strategica degli investimenti e non si fossilizzino sullo scopo di lucro.

Ad esempio qualunque progetto privato potrebbe essere proposto (purché legale, ovviamente), sotto forma di sottoscrizione aperta: dato il progetto e il budget di crediti necessari per realizzarlo, tutti coloro che lo sostengono forniscono la disponibilità con tot crediti.
Quando si raggiunge una percentuale critica (si può immaginare il 51% del budget, ma è una quota che va studiata in base alle dinamiche che si sviluppano) il progetto parte.
In questo modo si democratizzerebbe l’investimento, attraverso un processo di libera condivisione dell’impegno e del rischio, ben diversamente da come accade oggi, in cui uno specialista irresponsabile (mai visto un banchiere o un gestore di fondi rimetterci del suo) investe i soldi della collettività al fine di arricchire se stesso o la sua azienda.

.18 Alcune conclusioni. 

Gli ultimi due paragrafi possono sembrare uno sterile esercizio utopistico.
Si dirà che anche Platone si è dilettato a scrivere la “Repubblica” e che il suo progetto non è mai stato preso seriamente in considerazione.
Ma in realtà molte delle idee avveniristiche che circolano negli ambienti elitari dei “grandi burattinai” della politica, della comunicazione di massa, e dell’alta finanza, non sono che la ripresentazione delle ricette del filosofo ateniese, appena variate con qualche salsa moderna.

Se la proiezione degli scenari presenti porta dritta ad un vicolo cieco, è non solo ragionevole, ma addirittura doveroso ipotizzare delle alternative.
Aggiungo che pensare alle alternative è un esercizio di umiltà: significa avere la capacità di mettere in discussione l’operato precedente (anche il proprio operato) ammettendo che non è stato necessariamente il migliore.

Le comunità dirigenziali odierne in campo economico, politico e scientifico sembrano in preda a una immobilità dogmatica, figlia di un atteggiamento pigro ottuso e conformista.
Addirittura il ministro Savona è stato osteggiato e criticato in tutti i modi solo per aver ipotizzato la necessità di un’alternativa (il “piano b”); le riviste scientifiche accolgono volentieri conferme sviluppi e piccole variazioni delle teorie usuali e rifiutano con sdegno le teorie nuove (senza rendersi conto che le teorie standard di oggi, ieri furono nuove); l’economia continua a pretendere aggiustamenti (sempre più spesso negativi) nella vita dei cittadini e negli ambienti di lavoro, per conservare immutato l’impianto archeofinanziario.

L’ipotesi, il pensiero innovativo, la ricerca di modelli alternativi sono un’attività tanto più necessaria, quanto più si evidenziano i limiti sistemici dei modelli in uso.
L’adagio “si è sempre fatto così” deve essere completato con l’analisi delle condizioni e dei contesti che hanno reso quel “così” utile e conveniente.
Al mutare delle condizioni è ragionevole cambiare schemi operativi, tanto più riguardo a un tema centrale nella vita delle persone, come quello del lavoro.

L’atteggiamento tecnocratico, che è una delle principali malattie del pensiero odierno, lotta con tutte le forze per preservare lo strumento, senza analizzare seriamente lo scopo per cui tale strumento viene usato.
Come un viaggiatore che debba scendere un fiume e si impegna allo spasimo per mantenere efficiente la canoa; e quando il fiume è in secca continua a occuparsi dello scafo e delle pagaie.
Modestamente, propongo di usare le ruote.

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