SOLOGAMIA – IL FENOMENO DELLE DONNE SPOSATE CON SE STESSE.
di ROBERTO PECCHIOLI
Laura Mesi è una bella donna brianzola di 40 anni, istruttrice di fitness in una palestra. La storia che l’ha portata sulle pagine dei giornali da protagonista delle reti sociali, è quella delle sue nozze, celebrate con se stessa. Si chiama sologamia, un neologismo che descrive la condizione di chi rifiuta ogni condizione di coppia, ed anche il “poliamore”, preferendo un vero e proprio auto matrimonio.
Laura ha invitato 70 persone, ha comprato l’anello ed ha perfino pensato alla torta nuziale, alta cinque piani. Prima italiana a compiere questa scelta, la sua storia è diventata, come si dice adesso, virale, tanto che la compassata BBC ha realizzato un’intervista alla nostra connazionale auto sposata. Prima di tutto dobbiamo amare noi stessi, è stato il succo delle sue risposte, insieme con un’osservazione interessante: “si può vivere un racconto di fate senza principe azzurro”. La vita, insomma, sarebbe una fiaba, o un sogno rosa. Povero Calderòn de la Barca, che dal rapporto tra illusione e realtà ha tratto un capolavoro.
L’impatto con la realtà, nel mondo fatto di lustrini, consumo, spettacolo confuso con i fatti, eterna giovinezza, una continua vacanza dorata, accarezzata e sognata per sfuggire il pane duro di ogni giorno, porta evidentemente a rinchiudersi in se stessi, a negare l’innegabile, allontanare il rapporto con gli altri. E’ uno strano mix di egotismo e narcisismo, un’attitudine assai diffusa nell’universo postmoderno. L’egotismo non è il semplice egoismo, ma l’atteggiamento psicologico che consiste nel culto di sé e nel sofisticato compiacimento narcisistico delle proprie qualità e l’esaltazione della propria personalità.
Laura, ovviamente, non è l’unica adepta della nuova tendenza: la sologamia, infatti, è in ascesa in tutto il mondo occidentale ed è, significativamente, un orientamento quasi esclusivamente femminile. Non che manchi qualche maschietto conquistato al nuovo verbo. Un altro italiano, quarantenne anch’egli, ha realizzato analoga simil cerimonia addirittura nel castello napoletano dell’imprenditore nuziale divenuto personaggio televisivo come “Boss delle cerimonie”. Il novello auto sposo ha fatto la solenne promessa “di non amare mai nessuno come amo me stesso”, soggiungendo filosoficamente che “solo amando se stessi si può raggiungere la tranquillità interiore”.
Si può liquidare il fenomeno come una moda in più di un mondo terminale che corre gioiosamente verso il nulla, ovvero attribuirne la diffusione alle reti sociali, ad un esibizionismo privo di remore o all’assenza di valori condivisi, ma sarebbe solo una parte della verità. Più seriamente, ci sembra che si diffonda una predizione di Zarathustra: “Il deserto cresce, guai a chi cela in sé deserti”. Si impone un giudizio più articolato, una presa d’atto dell’avanzata trionfale del nichilismo pratico mascherato da libertà assoluta. E assoluto significa sciolto, liberato da vincoli, esente da limiti.
La sologamia appare altresì come la volgarizzazione del mondo di Robinson Crusoe, precursore del soggettivismo “liberal”. Gli sposi di se stessi sono assai simili al personaggio di Daniel Defoe: unici abitatori del mondo/isola, dunque autoproclamati padroni assoluti, ma in realtà carenti di tutto ed anzi dipendenti dal loro personale Venerdì. Hanno infatti bisogno dell’approvazione sociale, di qui le cerimonie ad imitazione dei matrimoni veri, con tanto di testimoni, anelli, abito nuziale, promesse. Allo stesso modo, dimostrano di ritenere gli altri, il prossimo, il mondo intero, solo delle cose, tutt’al più comparse o scenografie da utilizzare e sfruttare senza però impegnare sentimenti o ragione. Lo spettacolo, il centro è uno solo, “Io”.
Una delle “sològame” americane (le mode, si sa, arrivano tutte dal cuore dell’Impero), sposatasi con se stessa in pompa magna a Buenos Aires, ha scritto un libro-manifesto nel 2014 in cui esprime quella che è forse la chiave del fenomeno, ovvero prendere molto sul serio la cerimonia simbolo dell’amore di coppia, trasformandola in una rivendicazione di indipendenza. Sposandosi con se stessa, l’autrice, Sasha Cagen afferma di avere “scoperto che adottare tutti i significati simbolici delle nozze – l’abito, il giuramento, gli invitati – ha aiutato a realizzare le promesse che aveva fatto a se stessa soltanto in privato “. Dunque, da un lato un’espressione in più di un femminismo terminale, di risulta, radicalmente neoborghese e perfettamente inserito nella narrazione sociale dominante liberalprogressista, dall’altra la ridicolizzazione del matrimonio vero (quand’anche omosessuale!), il ripiegamento, la chiusura in un soggettivismo che ha tratti antiumani.
E’ la vittoria postuma di Verchovenski e Stavrogin, gli allucinati Demoni nichilisti del romanzo di Dostojevsky, e soprattutto di Max Stirner. Il filosofo tedesco dell’Ottocento, esponente della sinistra hegeliana, nell’ “Unico e la sua proprietà” sostenne l’esaltazione del singolo come valore assoluto nella sua irripetibile individualità, definita appunto l’Unico. L’Unico deve appropriarsi di una sola proprietà, se stesso con la sua volontà insindacabile, di potere, felicità o qualunque altra forma di esaltazione di Sé. Il giusto principio morale sarà dunque l’egoismo, inteso come sforzo per affermare l’Io e la sua volontà. Al di fuori dell’Unico, tutto è necessariamente oggetto, anche gli altri uomini. Il progetto di liberazione di Stirner diventa allora l’insurrezione dei singoli la cui meta non è realizzare una società organizzata secondo regole nuove, ma l’affermazione individuale della volontà. Si spegne la comunità, muore anche la società, in una misera riduzione a cosa, un ripugnante “usa e getta” di cui le povere spose di se stesse non sono probabilmente consapevoli.
In più, aleggia l’atmosfera di “day after”, il giorno dopo i sogni infranti, le aspettative eccessive, i rapporti sbagliati caricati di eccesso in ogni ambito, infine solo miraggi. In lingua spagnola la parola miraggio si traduce con “espejismo” e fa riferimento allo specchio. Uno specchio che illude, trasfigura, deforma. Il miraggio, letteralmente, è l’illusione ottica in virtù della quale si hanno immagini ingannevoli degli oggetti. Miraggio i rapporti perfetti, miraggio la felicità totale ricavata da rapporti a senso unico, solo ricevere, mai dare, con relativa disillusione finale. E miraggio, alterazione della verità a proprio vantaggio è anche il narcisismo.
Indicato da Christopher Lasch come elemento centrale della contemporaneità, consiste precisamente nell’innamoramento morboso di sé. Nella mitologia greca, narrazione simbolica che fonda e rappresenta l’immaginario collettivo occidentale, Narciso si innamora della sua immagine riflessa (immagine, non realtà, come nell’invertito presente!) e diventa crudele in quanto disdegna anche chi lo ama, la ninfa Eco. La sua punizione è morire consumato da quella passione vana e sterile. Vana e sterile, esattamente come la sotto cultura contemporanea.
La modernità scientifica ha ridefinito il narcisismo come una patologia – disturbo narcisistico della personalità- che sembra assai adatta a descrivere la sologamia. Jacques Lacan, psicanalista e filosofo, parlò addirittura di “fase dello specchio”. Che le persone interessate alla tendenza della sologamia siano portatrici di una forma insidiosa di narcisismo ed egotismo sembra dimostrato anche dalla seguente definizione: soggetti tendenti ad esagerare le loro qualità o talenti, sono assorbiti da fantasie di successo illimitato, manifestano bisogno di attenzione e ammirazione. Incapaci di riconoscere e percepire i sentimenti degli altri, tendono a sfruttare il prossimo per poter raggiungere i loro scopi e poter ingrandire se stessi.
Sentiamo, al riguardo, le dichiarazioni di altre donne che vivono l’esperienza del matrimonio con se stesse, non prima di aver preso atto di un’amara verità statistica collegata alla solitudine, volontaria o meno: nel mondo, circa 300 milioni di esseri umani vivono da soli. In Italia, i domicili unipersonali sono un quarto del totale e la tendenza è all’aumento, a comprova della disgregazione progressiva del tessuto familiare, comunitario, sociale.
In Inghilterra, dove hanno formato un club di sològame, l’automatrimonio più fastoso è stato quello della trentacinquenne Sophie Tanner, la quale ha affermato di aver preso la decisione a seguito di “una profonda riflessione, poiché non devo aspettare che arrivi “quella “persona (il marito giusto, immaginiamo n.d.r.) poiché quella persona sono io”. Appare evidente l’eccesso di aspettativa nei confronti dell’Altro, caricato peraltro solo di obblighi: deve essere a disposizione, dare tutto se stesso, essere – o diventare – come l’altro membro della coppia vuole che sia. Un altro aspetto è quello della carenza, della mancanza, o del transfert, giacché si finisce per riversare su stessi l’amore che si pretende e che, segretamente, si vorrebbe offrire senza riuscirci. Un altro disastro dell’incomunicabilità, figlia della falsità e strumentalità dei rapporti generata da una società basata sul tornaconto.
Ovviamente, i matrimoni di questa specie non hanno alcuna validità legale, ma nel Paese Basco, dove le nozze con se stessi coinvolgono ormai oltre cinquanta donne, una consigliera municipale del partito separatista nazionalcomunista Bildu ha fatto da maestra di cerimonie per un evento simil nuziale cui hanno partecipato nove auto spose. Tutte sono state concordi nell’ assicurare che si tratta di “una questione di amor proprio”. Nel corso della cerimonia, mesta e beffarda imitazione del matrimonio vero, si sono infatti impegnate ad aver cura di sé stesse, rispettarsi ed amarsi. La parafrasi della formula matrimoniale classica e la presenza dell’esponente politica fa balenare un ulteriore elemento, ovvero il deliberato atto di disprezzo verso l’istituzione matrimoniale nel suo complesso, vittima da tre generazioni di denigrazione, avversione e distruzione progressiva. Un’altra delle spose, madre da poco tempo, ha sinceramente riconosciuto che la maternità l’aveva travolta in negativo. “Sentivo che mi ero diluita”, si è sfogata. Diluita… Quel finto, grottesco matrimonio con se stessa, dunque, non era che la sua maniera di riappropriarsi di quel Sé che, secondo lei, la figlia le aveva rubato. Il cosiddetto, antiquato istinto materno è servito!
Ancora più chiaro è il messaggio di un’altra “sposa”, che durante la mascherata nuziale si è dedicata a distribuire arance, perché “non siamo la mezza arancia di nessuno, siamo arance complete”. All’individualismo più totale e rancido qui si assomma una rivendicazione di indipendenza, un’egolatria piccata ed ipertrofica insieme con un’ansia di autosufficienza e di illimitatezza che lasciano interdetti.
Viene spontaneo pensare alla saggezza orientale del Tao, la Via, che è costituita dalla dualità di Yin e Yang. Due principi opposti, ma complementari ciascuno dei quali non può esistere senza l’altro. Si sostengono ed alimentano a vicenda, formano un tutto organico e la loro rappresentazione è un cerchio diviso in due parti curvilinee a forma di Esse, una bianca e l’altra nera, che contengono al loro interno un ulteriore piccolo cerchio dell’altro colore. Simbolo di unità organica e della compresenza di elementi distinti ed opposti in ciascuna individualità, la Via esprime, tra l’altro, il senso dell’incompletezza, della necessità di cercare l’altro, il diverso per formare l’Unità: è, se vogliamo, una forma di consapevole umiltà.
Non la pensa così una ragazza di Taiwan, che ha optato per un matrimonio solitario in quanto non ha incontrato un fidanzato “degno di lei”. Stessa considerazione nelle parole della prima donna che ha pensato alla sologamia, Linda Baker: era stanca di aspettare lo sposo ideale. E’ davvero preoccupante questo eccesso di autostima, per il quale nessuno è alla loro (supposta) altezza. L’esperienza comune ci insegna al contrario a riconoscere che ciascuno ha difetti e manchevolezze e da tale constatazione nasce l’accettazione dei limiti altrui. Anche per questo il rapporto con gli altri è biunivoco, dare ed avere e l’amore, nelle sue varie forme, è il sentimento che permette di offrire qualcosa di sé, sacrificare, rimandare o rinunciare alla gratificazione in nome dell’Altro. Fuori da ciò, la vita si trasforma in una lotta per il piacere personale, in un confronto quotidiano il cui scopo è sottrarre qualcosa a chi incontriamo nel cammino, secondo il principio di Hobbes homo homini lupus.
Naturalmente, non si deve trascurare la dimensione commerciale, consumistica, modaiola di fenomeni come la sologamia. Le sue adepte sono in genere donne in carriera, con mezzi economici, propense al consumo; del resto, chi tira la vita con fatica ha pensieri ben più concreti che sposare se stesso. Intanto, si formano appositi gruppi su Facebook, aprono agenzie automatrimoniali come a Vancouver, Canada e di viaggi per novelli sposi di se stessi. Esiste anche un portale Internet, “I married me” ho sposato me stesso, in cui gli interessati possono auto regalarsi anelli, abiti nuziali e inviarsi lettere d’amore. Il Mercato non conosce morale e non ha altro scopo che il profitto, come sempre. Pare che la maglietta più acquistata dai sològami di tutto il pianeta sia quella contenente una citazione di Oscar Wilde, geniale corruttore di adolescenti vittoriano: “amare se stesso è il principio di una storia d’amore eterna”.
La sologamia è una delle mille spie dello stato delle relazioni contemporanee, non esclusivamente sentimentali e non solo tra i sessi. Può essere liquidata come una voga effimera, più o meno stupida quanto altre cavalcate dal grande circo del consumismo, ma resta il gusto amaro di qualcosa che va oltre, un segnale assai preoccupante da non trascurare. C’è davvero un po’ di tutto, il rifiuto della maternità, quello della stabilità e più in generale dell’affettività, un’idea della vita ludica, autocentrata e priva di senso del futuro, l’allontanamento a tappe forzate non tanto da ruoli sociali imposti o dalle responsabilità, ma più in generale dal rapporto con la realtà e la stessa natura.
Non si può dimenticare, peraltro, nella delusione (e nell’aggressività) di molte donne, il decadere dello spirito maschile. Sottoposto ad attacchi da ogni direzione, il senso maschile della vita è regredito in una fragilità nervosa inedita, in sensi di colpa, paure, debolezze e confusioni che sconcertano le donne. L’omino incapace di decisione, fuggiasco e privo di spina dorsale è l’altra faccia della moneta contraffatta della modernità. Non c’è da stupirsi se desta tanto disprezzo in molte donne, finendo a rifugiarsi nel sesso osservato o in quello a pagamento, nell’omosessualità, nell’ambiguità transessuale, talvolta purtroppo ad abbandonarsi alla violenza.
Il punto, tuttavia, che rende tanto perplessi di fronte a fenomeni come la sologamia, è l’assenza di risposte a domande semplici quanto essenziali nella vita di tutti. Che cosa faranno, questi spiriti innamorati di sé e indisponibili nei confronti del resto dell’umanità, allorché la vita presenterà il conto? Come si comporteranno di fronte al fallimento, al dolore, alla malattia, alla perdita dell’autonomia economica, alla sconfitta? A chi si rivolgeranno, su chi vorranno o potranno contare? Quando avranno smesso di alzare l’asticella delle emozioni, quando non saranno al centro dell’attenzione e passeranno per i dolori o le tragedie della vita, dopo essere stati indifferenti o insensibili alle esistenze altrui, a che varrà amare se stessi?
Senza un po’ di empatia, di altruismo, di rispetto e di amore per gli altri, la fonte della vita si dissecca, la realtà si disincarna, e si diventa naufraghi alla deriva in lotta perenne, come nella Zattera della Medusa di Géricault. Nessuna felicità è davvero tale se non è condivisa, nessun dolore è così grande da non poter essere consolato da qualcuno, nessun amor proprio dà la gioia di un gesto gratuito verso chi si ama o semplicemente si vuole aiutare. Spaventa davvero che la cura, l’accoglienza della vita, l’emozione, i grandi doni dell’universo femminile, cedano di fronte ad uno sguardo concentrato unicamente sul proprio ombelico. Prima o poi, l’istinto vitale riprenderà il sopravvento, in qualche misura l’umanità tornerà ad essere quella specie che Aristotele chiamava “animale politico”, o sociale.
Nel frattempo, guida il nostro pezzetto di mondo uno sconcertante nichilismo pratico, o gaio, come qualcuno ha definito lo spirito dei tempi, di cui la moda di sposare se stessi è un segno tra tanti. Sono tempi maledetti quando i matti conducono i ciechi, concluse il vecchio Re Lear. Giocando con il titolo di un’opera di Nietzsche, uno che di nichilismo è impazzito, la nostra personale definizione è “la gaia incoscienza”.
ROBERTO PECCHIOLI
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