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giovedì 2 maggio 2019

Stiamo correndo verso una deriva post-umana in cui i rapporti sociali tendono a corrompersi, in cui le persone rischiano di trovarsi “drogate” dall’abuso dei social, dipendenti dai like e dai commenti degli altri utenti, finendo spersonalizzate e scollate dalla realtà “vera”. I social hanno abbattuto molte barriere, avvicinano ma al contempo allontanano da ciò che è reale, diffondendo un’idea di perfezione virtuale che soprattutto i più giovani tendono a emulare finendo inevitabilmente frustrati.
I social non hanno solo illuso di poter offrire una “community” con un senso irreale e irraggiungibile di perfezione, ma hanno anche portato al costituirsi di un odio “democratico” in cui ognuno si sente libero e legittimato (in “diritto” quindi) di manifestare il proprio dissenso (il più delle volte acritico e di pancia) arrivando a insultare e minacciare gli altri: da qui il fenomeno degli haters e del cyberbullismo. È come se non esistesse più un filtro tra il pensiero/emozione e ciò che viene trascritto.
Il problema non è però nei social network in sé, ma in noi: essi sono un mezzo, siamo noi che abbiamo disatteso la capacità di saperli usare al meglio, dimostrandoci eticamente immaturi per gestire la rivoluzione digitale.
La virtualità ci rende più fragili e soli e rischia di risucchiarci in un vortice fatto di solitudine e sorveglianza: dovremmo divenire più consapevoli e responsabili dei mezzi che abbiamo e riappropriarci non solo del senso critico ma anche di quello spirito etico che dovrebbe supportare l’innovazione. Affinché la tecnologia sia pensata in funzione e per il bene dell’uomo, per non rischiare altrimenti di finire schiavi delle macchine che abbiamo progettato.

Enrica Perucchietti

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