Solo la ribellione eviterà un’apocalisse ecologica
DI GEORGE MONBIOT
Non verrà nessuno a salvarci. Serve che una disobbedienza civile di massa spinga i politici a dare una risposta
“C’è gente che già vive la catastrofe della natura, ma a differenza di quelli che vivono nel mondo ricco, non può più permettersi di crogiolarsi nella disperazione ed è costretta a rispondere in modo pratico.” – Foto: Guillem Sartorio / AFP / Getty Images
Se ci fossimo impegnati a prevenire la catastrofe ambientale, con gli stessi sforzi che abbiamo fatto per inventarci scuse per non fare niente, avremmo già risolto il problema. Ora ovunque guardo, vedo persone impegnate in tentativi furiosi per non accettare la sfida morale che ci si presenta.
L’ultima scusa che si sente è questa: “Scommetto che questi manifestanti hanno tutti il telefonino, vanno in vacanza e portano scarpe di lusso.” In altre parole, questa gente che protesta non è gente che vive nuda, dentro un barile e che cerca di sopravvive in mezzo all’acqua sporca. Certo, se venisse a protestare uno che vive nudo, dentro a un barile non lo ascolteremmo nemmeno, perché uno così deve essere una specie di hippie mezzo matto. Chiunque parli a nome di quella gente o che porti un loro messaggio si squalifica da sé, per troppa innocenza o per mancanza di credibilità.
Mentre la crisi ambientale aumenta di giorno in giorno e mentre i movimenti di protesta come YouthStrike4Climate e Extinction Rebellion ci rendono più difficile non vedere quello che sta succedendo, le gente si sta inventando i modi più assurdi per tenere gli occhi chiusi e per non assumersi nessuna responsabilità. Alla base di comportamenti c’è una convinzione profondamente radicata che se davvero siamo nei guai, da qualche parte arriverà qualcuno pronto a darci una mano: in altre parole, ci aspettiamo che “loro” non lasceranno che succeda qualcosa anche a noi. Ma non c’è nessun loro, ci siamo solo noi.
Chiunque abbia seguito la politica negli ultimi tre anni, oggi si rende benissimo conto che chi ci governa è una classe di politici confusionaria, riluttante, lontana dal mondo e strategicamente incapace di affrontare anche una crisi a breve termine, per non parlare di una situazione esistenziale come quella ambientale. Malgrado tutto si sente in giro, un po’ ovunque, l’ingenua convinzione che il voto sia l’unica azione politica necessaria per cambiare un sistema. A meno che insieme al voto non si levi un coro concentrato di forti proteste – proteste che fanno richieste precise e articolate tra le quali possano trovare uno spazio per nascere delle nuove fazioni politiche – il voto, pur essendo essenziale, resta uno strumento ottuso e debole.
I media, con poche eccezioni, fanno di tutto per essere contrari. Anche quando le televisioni fanno vedere le immagini di questi problemi, i commentatori evitano accuratamente di parlare dei governi, parlano di collasso ambientale come ci fossero delle forze misteriose e incontrollabili a guidarlo e si limitano a proporre soluzioni irrisorie per dei problemi strutturali di un peso enorme. Blue Planet Live, un documentario della BBC è un esempio chiaro di questa tendenza.
Chi governa una nazione e plasma le linee del discorso pubblico non dà nessuna fiducia quando parla di conservazione della vita sulla Terra. Non esiste una autorità benevola che ci salva dal male. Non viene nessuno a salvarci e nessuno di noi ha un motivo legittimo per non rispondere alla chiamata che ci deve vedere uniti per salvare noi stessi.
Extinction Rebellion’s Fashion: A Londra si è tenuto il Circus of Excess, una protesta contro gli sprechi della moda usa e getta. Foto: Yui Mok / PA
Vedo inoltre che la disperazione è un altro motivo per cui non si vuole riconoscere l’esistenza del problema. Stando ben attenti a non toccare con mano quel certo tipo di calamità che un giorno potrebbe toccare anche a noi, cerchiamo ipocritamente di nascondercela e di tenerla lontana da noi, trasformando la necessità di fare scelte concrete in una forma di terrore indecifrabile. Potremmo toglierci dalla coscienza il peso morale di dover fare qualcosa, affermando che è già troppo tardi per agire, ma facendo così stiamo condannando gli altri alla miseria o alla morte. La catastrofe è già arrivata in mezzo alla gente. Adesso. Ma differenza di chi vive nel mondo ricco che può ancora permettersi di crogiolarsi nella disperazione, c’è gente che deve già fare i conti con la realtà pratica. In Mozambico, in Zimbabwe e in Malawi, dopo le devastazioni del Cyclone Idai, in Siria, in Libia e in Yemen, dove il caos climatico ha contribuito alla guerra civile , in Guatemala, in Honduras e in El Salvador, dove la carestia, la siccità e la penuria del pescato hanno cacciato la gente da casa sua : la disperazione non è un’opzione. E’ stata la nostra non-azione a costringerli ad agire – a scappare da casa – sono loro che devono far fronte a quelle circostanze terrificanti causate principalmente dai consumi del mondo ricco.
I cristiani hanno ragione: la disperazione è un peccato.
Come ha scritto Jeremy Lent in un suo recente saggio, quasi certamente è già troppo tardi per salvare qualcuna delle grandi meraviglie del mondo, come le barriere coralline o le farfalle monarca. Potrebbe anche essere troppo tardi per impedire che molte delle persone più vulnerabili del mondo perdano la casa. Dice anche che con ogni grado che sale di riscaldamento globale e con ogni aumento dei consumi di risorse materiali, saremo costretti ad accettare delle perdite ancora maggiori, ma dice pure che molte di quelle perdite possono ancora essere prevenute con una trasformazione radicale (del sistema).
Qualsiasi trasformazione non-lineare che è avvenuta nella storia ha sempre preso le persone di sorpresa. Come spiega Alexei Yurchak nel suo libro sul crollo dell’Unione Sovietica – Everything Was Forever, Until It Was No More – ogni sistema sembra immutabile fino a quando improvvisamente non si disintegra. Non appena succede, guardandoci dietro vediamo che la fine di tutto doveva sembrare inevitabile. Il nostro sistema – caratterizzato da una crescita economica perpetua su un pianeta che non cresce – deve inevitabilmente implodere. L’unica domanda è se la trasformazione che avverrà nel sistema sarà una trasformazione pianificata da noi o non pianificata. Il nostro compito è garantire che sia pianificata e che sia rapida. Dobbiamo concepire e costruire un nuovo sistema basato sul principio che ogni generazione, in qualsiasi posto del mondo abbia gli stessi diritti di godere la ricchezza della Natura.
Qulla che segue è la parte meno scoraggiante che ci possiamo immaginare. Come rivela la ricerca storica di Erica Chenoweth, affinché un movimento di massa pacifico abbia successo, deve mobilitarsi solo un massimo del 3,5% della popolazione. Gli esseri umani sono dei mammiferi ultra-sociali, costantemente consapevoli in modo subliminale delle mutevoli correnti sociali. Una volta che avremo percepito che lo status quo è cambiato, improvvisamente la massa toglierà la sua fiducia allo stato di essere attuale e accetterà un altro status. Quando un 3,5% impegnato e che si fa sentire si sarà unito alla richiesta di un nuovo sistema, la valanga sociale che ne conseguirà diventerà irresistibile. Rinunciare prima di aver raggiunto questa soglia è peggio della disperazione: è disfattismo.
Oggi, Extinction Rebellion è andata in strada in tutto il mondo in difesa del nostro sistema di supporto vitale. Con una azione audace, dirompente e nonviolenta, deve costringere a far registrare la situazione ambientale sull’agenda della politica. Chi è questa gente? Saranno “loro”, quel LORO chi potrebbero salvarci dalla nostra follia? Il successo di questa mobilitazione dipende da noi.
Si riuscirà a raggiungerà la soglia critica solo se un numero minimo e sufficiente di noi metterà da parte la propria ignavia e la propria disperazione e si unirà a questo movimento esuberante e proliferante. E’ finito il tempo di cercare scuse. La lotta per rovesciare il sistema della negazione della vita è cominciato.
George Monbiot
Fonte : https://www.theguardian.com
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