La chiusura domenicale e la religione dello shopping

La chiusura domenicale e la religione dello shopping
La nuova regolamentazione delle chiusure domenicali ha molto più a che fare con una violazione delle libertà religiose che con l’economia.
L’apertura domenicale dei negozi non serve ad aumentare i guadagni, non sono le occasioni di acquisto a mancare ma i soldi. E anche in quei casi in cui è il tempo per fare acquisti a mancare, il problema è sempre quello di un’organizzazione economica nella quale chi lavora è sfruttato con il tempo libero ridotto al minimo e gli altri sono disoccupati. Ma il governo Monti pensò che per aumentare il PIL il problema fosse che non c’era abbastanza offerta e così varò il “Decreto salva Italia”, un nome illusorio figlio di un pensiero magico che così viene ricordato su Repubblica:
Correva l’anno 2012, quando il decreto “Salva Italia” del governo Monti – approvato per riequilibrare la struttura dei conti pubblici – entrava in vigore introducendo le liberalizzazioni di molte attività tra cui taxi, farmacie e negozi. Questi ultimi avrebbero potuto effettuare orari diversi dal resto della concorrenza, aperture straordinarie e sconti fuori dal periodo stagionale dei saldi. Ora, a quasi sette anni di distanza da quel decreto, tutto ritorna in discussione.
Lo shopping domenicale ha molto poco a vedere con l’economia che prosperava benissimo quando la gente la domenica poteva fare quello che voleva nell’immenso mondo che esiste al di fuori dello shopping, ma perché si sentisse la pulsione a fare acquisti la domenica è stata necessaria una trasformazione umana che somiglia molto ad una visione religiosa.
Il passaggio dalla società dei bisogni a quella dei desideri coincide con il passaggio alla mentalità che Bauman definisce dello “shopping”, che finisce col diventare il codice in cui è scritta la nostra politica della vita. In realtà non facciamo shopping solamente quando ci troviamo in un negozio a fare acquisti, ma ogni volta che seguiamo la logica della ‘lista della spesa’ in cui l’unico obbligo è proprio quello di decidere quale delle innumerevoli possibilità scegliere tra quelle che il mondo propone. Con lo shopping siamo di fronte ad un’altra di quelle componenti della società fluida che si rischia di sottovalutare al pari del concetto della fitness. La sua ‘sacralità’ si manifesta invece sin dai luoghi di elezione del rito, i centri commerciali che prendono il posto della funzione domenicale in chiesa mutuandone le caratteristiche, sono luoghi dove si converge con una moltitudine di altre persone unite dal solo fatto di recarvisi per compiere lo stesso rito, dove si vive una cornice spaziale e temporale distaccata dal mondo, un tempio nel senso etimologico del termine derivato dal latino “templum” che indica un recinto, uno spazio separato ma anche un periodo circoscritto, da cui il termine “tempo”.
E come tutte le religioni, lo shopping è un rifugio contro l’insicurezza che lo stesso Bauman arriva a paragonare ad un rituale di esorcismo contro l’incertezza che però data la temporaneità dei suoi effetti deve essere continuamente ripetuto, se possibile ogni giorno.
Nel tempio dello shopping si celebra la trasformazione antropologica che porta dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri teorizzata dal banchiere della Lehman Brothers, Paul 
Mazur, tra gli anni venti e trenta: 
Dobbiamo cambiare l’America da essere una cultura dei bisogni, ad essere una cultura dei desideri… Bisogna insegnare alla gente a volere cose nuove, anche prima che le cose vecchie siano state consumate del tutto. Dobbiamo formare una nuova mentalità in America. I desideri dell’uomo devono mettere in ombra le sue necessità1.
Ma anche la cultura dei desideri appartiene ormai ad una fase incompleta della trasformazione antropologica, il desiderio è legato ad una richiesta di autoaffermazione potenzialmente insaziabile ma non ancora del tutto inarrestabile in quanto delimitata dal principio di realtà, per la società consumistica perfettamente compiuta ogni limite deve essere abbattuto e quindi il desiderio non è ancora abbastanza, nasce allora la cultura successiva, quella del ‘capriccio’:
laddove la facilitazione del desiderio era fondata sul raffronto, sulla vanità, sull’invidia e sul ‘bisogno’ di autoapprovazione, niente sostanzia l’immediatezza del capriccio. L’acquisto è casuale, imprevisto e spontaneo. Possiede la fantastica qualità di esprimere e al contempo soddisfare un capriccio, e come tutti i capricci, è insincero e bambinesco.2
Con l’apertura domenicale non si fuggiva dalla sacralità della domenica cristiana per andare verso uno spazio laico ma verso una diversa a più esigente religione, la chiusura domenicale è l’ultima possibilità che ci è data per fuggire dalla religione dello shopping che a sua volta è figlia di quella del denaro.
1 Cfr. Häring, Norbert; Douglas, Niall (2012). Economists and the Powerful: Convenient Theories, Distorted Facts, Ample Rewards. London: Anthem Press, p. 17.
2 Harvie Ferguson, Watching the world go round: Atrium culture and the psichology of shopping, citato da Bauman op. cit. pag. 79.