Cile: all’alba Privatizzazioni selvagge, costo della vita altissimo, totale assenza di stato sociale: queste alcune delle ragioni che hanno spinto milioni di cittadini a scendere in piazza per protestare contro il proprio governo. Cerchiamo di capire cosadi Giancarlo Cutrona
“Siamo occidentali, ma il Cile non è un paese come tutti gli altri. Qui la dittatura non è mai finita”, dice laconico Bertrand, architetto cileno che da 6 anni vive a Parigi. “La democrazia da noi è solo una facciata. Tutto è rimasto come prima, come quando c’era Pinochet, il dittatore. Votiamo, si susseguono governi, si dissolvono partiti, cambiano i politici e poi, di nuovo, nascono altri partiti e ancora altre nuove alleanze e votiamo, votiamo, ma il Cile è ancora il Cile degli anni Settanta”.
Be’, non sembra poi così diverso che da noi. Potresti spiegarti meglio?
Accanto a lui la sua compagna, Diana, una produttrice cinematografica che da due anni vive in Francia, secca, lo interrompe. “Quello che Bertrand sta cercando di dirti è che il Cile, (questo Cile), è il figlio adulto del Cile di Pinochet. È stato lui a dar vita al processo di liberalizzazione e privatizzazione selvaggia che ha distrutto e continua a distruggere il nostro paese. Nessuno, dopo lui, ha cercato di cambiare la struttura socio-economica creata durante la dittatura. Il potere di allora è lo stesso di oggi, è si mantiene ben saldo al posto di comando. Succhiano il sangue della popolazione. Ci schiacciano”.
Vessati dalle tasse come tutti, immagino?
Non è esattamente così. Se la nostra economia fosse un cavallo, sarebbe il Purosangue liberale. Paghiamo pochissime tasse, ma di contro paghiamo caro ogni servizio. In Cile non esiste lo stato sociale. Nulla è pubblico. Ogni aspetto della vita è privatizzato alla radice: non esiste, ad esempio, una sanità pubblica, una scuola pubblica e nemmeno un sistema pensionistico statale. Se non hai i soldi vieni lasciato letteralmente morire per strada. Se non hai soldi i tuoi figli non potranno mai ricevere un’educazione scolastica adeguata e sarà impossibile accedere, successivamente, al mercato del lavoro. Per ognuna di queste voci non paghiamo tasse, ma destiniamo grosse percentuali delle nostre entrate. A occuparsi delle pensioni ad esempio, sono gli Amministratori di Fondi di Pensioni (comunemente noti come Afp), enti privati a cui ogni cittadino versa il 12% delle proprie entrate.
Questi enti privati gestiscono miliardi che successivamente investono in Borsa facendo profitti da capogiro. Ma quando il cittadino comune raggiunge l’età della pensione, gli servono un piatto freddo, briciole, 200 miseri euro mensili. Ma non è tutto. La pensione viene erogata in base a un calcolo approssimativo e totalmente arbitrario basato sulle attività lavorative, sulla situazione familiare e sullo stato di salute: ti dicono quanto, secondo loro, vivrai e di conseguenza quale somma ti spetta. Decidono tutto loro. E se muori prima, tuttavia, i soldi che ti spettano di diritto (che hai versato con quella quota del 12% durante tutta l’attività lavorativa), non andranno mai alla tua famiglia, né verranno ripartiti in un fondo comune da dividere alla popolazione. Noi crediamo che tutto ciò sia aberrante.
E dove vanno a finire questi soldi?
Rimangono nelle tasche del Afp che li investe in Borsa. Ma non sono soldi loro, sono soldi rubati.
E a quanto ammonta lo stipendio medio?
Il salario minimo è di 300-400 euro mensili circa e lo stipendio medio di un lavoratore a tempo pieno può arrivare a 600.
E gli affitti?
Più o meno la stessa cifra del salario minimo: 3-400 euro. Negli ultimi anni però gli affitti sono duplicati e in alcuni casi triplicati, mentre i salari sono rimasti gli stessi di 10 anni fa. Ma il problema non sono solo gli affitti, è il costo della vita in generale che è altissimo. Impossibile da sostenere per chiunque.
Quindi l’aumento del costo del biglietto della metro non c’entra nulla? Alla domanda segue una risata. Poi, qualche secondo più tardi, sui loro volti si palesa un’espressione delusa. Scuotono la testa. Ma Bertrand prende fiato e dice questo:
E’ assurdo pensare che un paese grande come il Cile possa andare a fuoco solo per il costo del biglietto della metro. I media mentono spudoratamente. Si focalizzano su un dettaglio quasi irrilevante per minimizzare la questione, e con esso, sintetizzano il tutto, banalizzano la povertà concreta, nascondono la repressione e la violenza che subiamo ogni giorno (non solo adesso che è scoppiata la rivolta). La verità è che in Cile si lavora duro come muli e si fa la fame. Lavoriamo 45 ore a settimana per stipendi miseri e con quella miseria dobbiamo pagare ogni cosa che si muove senza il minimo intervento dello Stato. Oltre la truffa legalizzata del sistema pensionistico, c’è un problema che sta alla base di tutti i problemi del Cile: il debito che ogni cileno contrae con gli enti privati. Un quarto del nostro stipendio va via per il fondo pensionistico, un altro quarto per l’assicurazione sanitaria (che nonostante tutto offre pessimi servizi), un altro quarto per gli affitti e ancora un altro quarto per luce, gas e acqua. Non ci rimane un soldo per vivere. Nemmeno uno.
Quindi cosa si fa in questi casi? Ci si indebita, è ovvio! Debito per pagare per pagare l’istruzione ai figli, perché più del 40% delle scuole e delle università cilene sono in mano a privati e lo Stato ha ridotto drasticamente gli aiuti a quelle pubbliche, che sono sempre meno e sempre meno efficienti, debito per comprare cibo, debito per i medicinali, debito per vestirsi e debito per tutto il resto, per tutto quello che serve per vivere. Questa rivolta sarebbe dovuta scoppiare molto tempo fa, solo che alla gente è stata venduta una calma apparente. Un film. Tutti vengono invogliati a indebitarsi e a comprare a rate un divano, un televisore, un frigorifero, l’automobile. Poi quando l’orologio degli strozzini delle banche segna la tua ora, la calma svanisce e ti ritrovi con il culo per terra, sbattuto fuori al freddo e pieno di debiti da ripagare. Siamo un paese ricco e pieno di risorse, il più ricco di tutto il Sud America, eppure occupiamo l’ultimo posto nella classifica OCSE, l’ultimo, è chiaro? Questo vuol dire che siamo i primi della classe per diseguaglianza sociale. In Cile non esiste redistribuzione della ricchezza, la povertà si respira a ogni angolo, ma il nostro presidente non la vede, non la vede, e dice che il Cile è ricco, che la nostra economia prospera!
Quella che descrivete, purtroppo, è una fotografia simile a quella di molti altri paesi occidentali. Quando i governanti dicono ‘il paese prospera’ intendono dire, in realtà, che gli affari delle multinazionali presenti sul territorio vanno a gonfie vele, e quando ‘siamo un paese ricco’, che le tasche di questi signori sono piene di soldi, non credete?
Esatto, è proprio così – dice Diana –. La ricchezza del Cile è amministrata da una piccolissima cerchia ristretta fatta di potentissime famiglie. Per questo diciamo che non è cambiato nulla. Non è retorica, ma la triste realtà. Questo è il lascito di Pinochet: la sua creatura vive, cresce, si espande e noi sotto moriamo schiacciati dal peso della loro ricchezza. Da Pinochet in poi, per i cileni, le parole ‘privatizzazione’ e ‘liberalizzazione’ hanno assunto il significato della morte. Morte per fame, morte per sete, morte per mancanza di medicine, morte per mancanza di dignità, di un tetto. Questa è l’eredità di Pinochet.
Ed è questo il motivo che vi ha spinti a volare in Francia, non è vero?
Sì – rispondono accorati – ma il nostro cuore è rimasto in Cile…
Poi il silenzio tra i due preannuncia il passaggio turbolento di un pensiero malinconico. Difficile indugiare con altre domande, difficile non rispettare il tempo di una pausa non richiesta, ma dovuta. Difficile non cogliere in filigrana le secche sfumature della frustrazione: è la stessa che si legge nel volto di ogni nomade moderno, che diventa libro aperto quando racconta, tenendole strette, storie di due mondi sospesi. La casa e il domicilio. Il luogo da cui esso proviene e quello dove esso si trova, per caso, mosso come un birillo dal movimento dei movimenti. La necessità.
Non lo so – riprende Bretrand -, ma in questi giorni vedendo quello che sta succedendo nel mio paese, non dormo sereno. In testa ho mille pensieri. Prendo la metro, vado a lavoro, vedo i colleghi, cerco di distrarmi, ma dentro di me continuo a pensare al Cile e a chiedermi cosa ci faccio qui? Cosa ci faccio in questo ufficio? Vorrei tanto esseri lì, vorrei poter contribuire, in qualche modo, vorrei poter restare a fianco dei miei fratelli cileni e lottare per un Cile diverso, perché un giorno, prima o poi, tutto questo dovrà pur finire.
Temete per l’incolumità delle vostre famiglie?
Certo – replica Diana – hanno già sparato a una mia cugina. Si chiama Carla, ha 26 anni ed era una ballerina professionista. Dico era, perché mentre si trovava per strada a cantare e a manifestare pacificamente, le sono arrivati tre proiettili addosso: uno al braccio, uno alla spalla e uno (letale per la sua professione) al menisco. Gli si sono frantumate le ossa e in ospedale le hanno già detto che non potrà mai più fare questo mestiere. Quindi o trova una soluzione al più presto, oppure si ritroverà per strada anche lei, senza un lavoro.
Rivedere le immagini dei militari riversati nelle strade del Cile fa un certo effetto, e immagino rievocano in voi lo spettro della dittatura militare di Pinochet: temete che succederà di nuovo, oppure credete che oggi, grazie alla potenza mediatica di internet sarà impossibile?
In un certo senso sta già accadendo – continua Diana –, perché l’autoritarismo e la violenza sono insite nel dna del nostro paese. Da sapere, c’è che Nel ‘Sistema Cile’ i militari viaggiano su corsie preferenziali. Oltre ad avere stipendi più alti della media, hanno diritto a una pensione più alta, a una sanità gratuita e a ogni sorta di privilegio negato a tutti gli altri. Scendono in strada impugnando le armi contro i loro stessi fratelli, ma non per difendere lo Stato, ma perché difendono i loro privilegi. Non pensiamo, tuttavia, e non possiamo credere che si replicherà quello che è successo in passato. Loro ce la stanno mettendo tutta per insabbiare i casi di violenza cruenta: da un lato abbiamo i media mainstream che applicano, come al solito, una censura selettiva, e dall’altro la complicità delle aziende di telecomunicazione che hanno abbassato la potenza delle antenne e quindi del 4G, per ingolfare la condivisione di materiale multimediale compromettente. Una su tutti la Claro, che ha tra gli azionisti il gruppo della famiglia Matte-Pérez, già coinvolto in altri scandali in passato.
Io tuttavia, faccio parte di due organizzazioni: Nosotras Audiovisuales e Asociación de Productores Independientes de Chile (API), che insieme formano un collettivo impegnato in prima linea nella diffusione di materiale multimediale chiamato Registro Callejero. Tutti possono attingere al nostro database e vedere, senza censura, quello che succede in Cile. Ma non è un’impresa facile: anche i social network, inspiegabilmente, ci mettono i bastoni tra le ruote. Il mio profilo personale (e vivo a Parigi), è stato bloccato tre volte questa settimana. La stessa cosa è successa a moltissimi cileni, infatti è stato messo a disposizione un codice per capire se il proprio telefono è stato hackerato o meno, basta digitare queste cifre: *#21#.
Finora fonti ufficiali ci dicono che ci sarebbero 18 morti, centinaia di feriti e oltre 7.000 arresti, tra questi donne, anziani e circa 300 bambini. Ma noi temiamo che siano molti di più. Sappiamo con certezza che una stazione della metro è stata utilizzata come centro di tortura e che lì’ si sono consumati abusi sessuali verso donne e uomini, sappiamo che ci sono più morti per arma da fuoco di quelli che dicono, ma che alcuni cellulari sono stati sequestrati e non esistono prove che possano dimostrarlo. I desaparecidos non si contano e in Cile si è tornati a parlare di ‘Tejas Verdes’, il luogo dove i detenuti venivano rinchiusi e torturati ai tempi della dittatura.
Bisogna riconoscere che il lavoro che svolgi con questo collettivo ti fa onore, perché nonostante tutto, nonostante la distanza, stai dando un contributo importante ai tuoi connazionali.
E’ il minimo che possa fare. Inoltre appena ci è possibile, dopo lavoro, io e Bertrand raggiungiamo la comunità cilena di Parigi e manifestiamo il nostro dissenso, e tutti insieme cantiamo ‘Chile despertó!’. L’altro giorno, a sorpresa, ci hanno raggiunto in massa i gilet gialli ed è stato un momento molto commovente e mi sono sentita stupida, tanto stupida…
Perché stupida?
Perché ho passato un anno a ignorarli, consideravo inopportuno intromettermi negli affari di un paese che non è il mio. Ma parlando con loro ho scoperto che abbiamo davanti una lotta, una storia e un destino che ci accomuna. Il nostro nemico è lo stesso.
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