Può un ministro auspicare pubblicamente l’alba di una nuova era composta da ibridi “umano-robot” senza generare scandalo né polemiche?
“Saranno i robot a salvare l’Uomo. Ne miglioreranno la vita, lo sottrarranno a rischi inutili e a lavori disumanizzanti e anzi gli permetteranno di migliorarsi e di migliorare la propria vita. Come scrive
Marco Bentivogli su
Il Foglio di stamattina, ci dobbiamo augurare il nuovo ibrido “uomo-macchina”, senza alcuna paura, perché alla parte macchina lasceremo i lavori usuranti, pericolosi e ripetitivi mentre alla parte uomo resterà l’intelligenza e la creatività. In Italia siamo già molto avanti e ci vorrebbe una vera “silicon Valley” della robotica, un hub produttivo dove sviluppare e far crescere il settore. D’altronde basta leggere i dati 2018 del WEF, citati da Bentivogli: nel 2025 perderemo 75 milioni di tipologie di lavoro ma ne creeremo 133 milioni. Quindi, benvenuti Robot e benvenuti a noi uomini e donne che non abbiamo paura del cambiamento dei nuovi lavori e delle nuove opportunità. Il mondo si trasforma siamo pronti ad osare?”.
“Siamo pronti a osare?” chiede la ministra nella chiusa del post. Ebbene, qua non si tratta di “osare”, ma di portare semmai al cuore dell’opinione pubblica tematiche delicate, come quella dell’automazione o dell’ibridazione uomo-macchina, che riguardano la collettività e che andrebbero discusse in modo obiettivo, serio, senza pregiudizi ma neppure con l’esaltazione tipica delle tifoserie da stadio.
In questa esternazione pubblica troviamo diversi spunti di analisi e di riflessione.
Innanzitutto l’esaltazione acritica di un ministro nei riguardi della tecnologia; l’auspicio che i robot soppiantino gli umani (si parla di 75 milioni di posti di lavoro che verrebbero “rubati” dai robot); la creazione di fantomatici 133 milioni di posti di lavoro senza specificare quali; il riferimento a ibridi “umano-robot”.
Ora, partiamo dall’ultimo punto: se un ricercatore o un giornalista parla di cyberuomini, ossia di ibridi umano-robot viene liquidato come un cospirazionista o un venditore di bufale, additato come uno che perde tempo a rincorrere le farfalle e ha passato troppo tempo col naso piantato sui libri di fantascienza; se ne parla invece un ministro, zitti tutti, si devono accogliere tali esternazioni come fondate e degne di fiducia. Perché, seguendo il principio di autorità, un ministro dovrebbe sapere di che cosa parla e non proiettare una propria visione ideologica in tematiche così delicate… Eppure si mescola in poche riga la tematica dell’ibridazione uomo-macchina e quindi del post-umano con quella dell’automazione, facendo una bella confusione.
Quando si parla di ibridazione uomo-macchina, infatti, si rientra nel campo del post-umanesimo, un movimento culturale che intende ridefinire l’umano in senso plastico, dinamico, relazionale, persino ibridativo. In questa visione, l’umano perde la totale preminenza ontologica, epistemologica, etica sul non umano e viene interpretato come un prodotto storico mutevole e liquido, plastico. Viene pertanto posta in discussione la sua identità: l’essere umano è di fatto un costrutto storico che può essere modificato. Chi vi aderisce condivide una visione meccanicistica dell’esistenza umana per cui l’uomo si ritiene obbligato a continuare la propria evoluzione come se fosse una macchina o un dispositivo da aggiornare.
I RISCHI DELL’AUTOMAZIONE
Veniamo alla questione relativa all’automazione, di cui ho ampiamente trattato nel mio libro
Cyberuomo (Arianna Editrice). Premesso che la tecnologia è neutra e come mezzo dipende quindi da come la si usa, mi sembra di ravvisare una forma di
feticismo per l’innovazione, per cui si debba supinamente accettare qualunque innovazione tecnologica, anche la più bislacca, trincerandosi dietro l’adagio per cui il progresso non si può fermare.
Invece, dietro la parola “progresso” si nascondono ricerche che fino a qualche anno fa sarebbero state bollate come incubi distopici e che oggi vengono invece offerte all’opinione pubblica come un traguardo per l’evoluzione collettiva. Se critichi qualunque cosa venga etichettata come “progresso” vieni automaticamente bollato come un oscurantista e un neoluddista, inibendo il confronto e censurando il dialogo.
Premesso che non intendo criticare la meccanizzazione o l’avanzamento tecnologico tout court che hanno migliorato le condizioni di vita e alleviato i lavoratori dalle mansioni più massacranti e pericolose, questo articolo si concentra sui risvolti ambigui o addirittura pericolosi di questi processi, dal rischio del “disboscamento degli umani” alle degenerazioni della rivoluzione digitale.
L’entusiasmo e l’esaltazione acritica nel progresso e nella tecnologia stanno oscurando il lato nascosto di queste ricerche, dal campo dell’automazione all’ibridazione uomo-macchina.
Siamo sicuri che tutto ciò che è tecnologicamente possibile (o che lo sarà in futuro) sia da ricercare e applicare a tutti i costi?
Se la tecnologia aumenta il divario tra ricchi e poveri, invece di colmarlo
Oggi l’uomo è entrato, grazie alle nuove tecnologie, in una nuova era, dove pochi uomini da soli possono stravolgere totalmente la vita sul nostro pianeta.
In un mondo in cui una élite, pari al 5% della popolazione, possiede oltre il 90% della ricchezza globale, la forbice della diseguaglianza continua ad allargarsi: la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è sempre più accentuata.
Non è esagerato affermare che si sta realizzando, sotto il nostro stesso naso, il sogno delle élite mondialiste: dividere la società in due livelli, da una parte il potere economico detenuto da una ristretta cerchia tecno-finanziaria di super ricchi, dall’altra la “massa” indistinta di individui sempre più poveri, soli, senza legami, diritti e senza radici, facili quindi da sfruttare e controllare per il governo globale che si sta costruendo.
L’impatto strutturale della tecnologia che non solo “mangia” lavoro ma accentua la divaricazione nella ridistribuzione dei redditi è talmente evidente che sono stati gli stessi guru della Internet economy ad avanzare interventi, da Bill Gates a Elon Musk
[3], in particolare arrivando a proporre un reddito di cittadinanza/sussistenza erogato dalla Stato a quei lavoratori che saranno lasciati indietro dalla rivoluzione tecnologica.
Si profila cioè un futuro incerto di cui non si possono prevedere risvolti e possibili reazioni “avverse”: possibili rivolte che non possiamo prevedere, ossia si rischia di passare dalle proteste no global più o meno accese a forme di neoluddismo.
IL DISBOSCAMENTO DEGLI UMANI
Riccardo Staglianò nel suo libro Al posto tuo, parla di “disboscamento dagli umani” in quanto il supercapitalismo digitale, in particolare in settori come la logistica, non solo ha «assunto magazzinieri, pagandoli poco e facendoli trottare tanto», ma ora punta alla progressiva sostituzione dei lavoratori umani con le macchine.
Invece di “progredire”, di evolverci e di migliorare non solo la produttività ma anche le condizioni e i diritti dei lavoratori, siamo ripiombati indietro nel tempo, registrando ritmi di lavoro frenetici, mobbing, terrorismo psicologico e condizioni al limite della schiavitù.
A ciò si aggiunge la questione del controllo sul luogo di lavoro, tematica di certo non nuova che ho ampiamente trattato in precedenza nei miei articoli e saggi
[1]. Pensiamo per esempio alla
nuova moda di impiantare chip dermali per “comodità”, sui luoghi di lavoro senza minimamente pensare alle conseguenze sociali del gesto (per esempio il caso della
Three Square Market i cui manager avevano proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda e il caso della svedese
Epicenter). Già nel 2015
Fincantieri aveva provato a introdurre una modalità simile: nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto integrativo l’azienda avrebbe chiesto di introdurre microchip negli scarponi e negli elmetti degli operai «per implementare la sicurezza» sul lavoro e conoscere sempre la posizione dei dipendenti. I sindacati intervennero dichiarando inaccettabile la richiesta.
In questa discesa agli inferi, il lavoro prima è stato delocalizzato per abbassare i costi, trasferendo la produzione in Paesi emergenti, dove gli operai costano meno che da noi, poi come effetto collaterale della delocalizzazione i lavoratori immigrati sono arrivati da noi sperando di guadagnare di più. La miseria con cui venivano pagati gli immigrati è diventata poi il parametro cui adeguare la nostra paga, livellando così verso il basso tutti i salari. Il lavoro è diventato sempre più disumano e precario.
Ovviamente non è finita. Il passo successivo è la sostituzione dei lavoratori con i robot.
La Terza Rivoluzione Digitale è in atto: per evitare che lo sviluppo tecnologico ci schiacci è fondamentale mettere la tecnologia al servizio dell’uomo, invece che contro di esso, migliorando la vita di tutti puntando al benessere collettivo e non alla mera produttività e alla ricchezza di pochi. Pochi perché secondo le stime degli economisti, molti verranno soppiantati, disboscati appunto, dalle macchine.
IL RAPPORTO MCKINSEY
L’Ansa il 17 luglio 2016 ha battuto una strana notizia: manager e igienisti dentali per ora stiano sereni: i lavori che l’uomo potrebbe vedersi “rubati” a stretto giro dai robot sono altri,
in primis nei settori della ristorazione e della produzione industriale. A sostenerlo è un
rapporto di McKinsey A future that works: Automation, employment, and productivity che analizza l’impatto dell’automazione e della robotica sul mondo del lavoro nel lungo periodo (50 anni) considerando scenari evolutivi a diverse velocità
[2]. Il rapporto ha anche stilato una classifica dei lavori che nel prossimo futuro hanno più probabilità di altri di essere automatizzati.
La società di consulenza ha analizzato oltre duemila compiti svolti nell’ambito di oltre 800 occupazioni e ha individuato quali categorie sono più a rischio di altre. I più inclini all’automazione, spiegano gli analisti, sono i lavori di produzione industriale ma anche i servizi legati a cibo e vendita al dettaglio. Insomma, non solo la catena di montaggio − che infatti è già ampiamente automatizzata − ma tutti coloro che svolgono compiti particolarmente ripetitivi, come ad esempio impacchettare oggetti o preparare cibi, possono essere rimpiazzati da tecnologie già al momento disponibili.
Un dato interessante che emerge dall’analisi
è che solo il 5% dei lavori potrà essere completamente automatizzato, ma l’automazione avrà un impatto – in una misura pari al 30% – su circa il 60% delle mansioni lavorative[3]. In altre parole,
in 6 tipologie di lavori su 10 una buona parte dei compiti sarà eseguito da macchine[4]. Secondo lo studio, in tutto il mondo 1,2 miliardi di posti di lavoro sono sostituibili − in tutto o in parte − con le tecnologie disponibili a livello commerciale, di cui 700 milioni in India e Cina. Nei soli cinque Paesi europei esaminati − Francia, Germania, Italia, Spagna e UK − i posti full-time a rischio sono 54 milioni, pari a un monte stipendi di 1.700 miliardi
[5].
A una conclusione simile (il 47% dei lavori sostituibili) sono giunti Benedikt Frey e Michael Osborne della Oxford University, già autori del paper dal titolo
The Future of Employment:
How Susceptible Are Jobs to Computerisation?[6], a loro volta hanno curato un rapporto analogo
Technology at work. The Future of Innovation and Employment. La tesi principale del lavoro del 2013 è che
circa la metà degli occupati statunitensi – il 47%, per essere precisi – sia attualmente ad alto rischio “sostituzione”.
L’automazione porterà cioè a decine e decine di milioni di disoccupati nel corso dei prossimi due decenni, senza però spiegare, al di là delle stime pessimistiche, che cosa avverrà dopo che l’effetto di “disboscamento degli umani” sarà concluso…
Anche i più pessimisti non possono però spiegare come, quando e perché i loro scenari apocalittici si materializzeranno. Per la cronaca, esistono anche diverse analisi recenti che sottolineano come l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro umano dipenda largamente dai prezzi relativi di capitale e di lavoro e dalla recettività del mondo aziendale di capitalizzare queste opportunità
[7].
Tutta questa confusione sembra però confermare quanto emerge in un libro molto interessante di
Fredrik Erixon e di Björn Weigel intitolato
The Innovation Illusion (2016). Secondo i due autori tutti coloro che sono eccessivamente ottimisti verso le attuali innovazioni o tutti coloro che sono troppo pessimisti sulla sostituzione di decine e decine di milioni di posti di lavoro, tendono quasi sempre a ignorare le sconfortanti realtà macroeconomiche del mondo attuale
[8].
DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
Su un punto gli analisti sono però concordi. La robotica presto renderà possibile la creazione di una generazione di macchine tanto intelligenti da poter sostituire non solo la manodopera pesante ma anche i colletti bianchi, dando vita a quel fenomeno che era già stato previsto da John Maynard Keynes: la “disoccupazione tecnologica”, ossia la perdita di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico. Questo cambiamento solitamente riguarda l’introduzione di tecnologie che permettono di ridurre il carico di lavoro eseguito dagli operatori e l’introduzione dell’automazione.
John Maynard Keynes nel saggio
Economic Possibilities of Our Grandchildren del 1930 smentiva le stime più ottimistiche di colleghi quali John Bates Calrk e William Leiserson (quest’ultimo descrisse la disoccupazione come una specie di effetto ottico)
[9]: l’automazione poteva creare disoccupazione su larga scala e in modo permanente se erano sempre più numerose le attività che venivano automatizzate:
«Siamo afflitti da una nuova malattia di cui alcuni lettori non hanno forse ancora letto il nome, ma di cui sentiranno molto parlare negli anni a venire e cioè la disoccupazione tecnologica. Ciò significa una disoccupazione causata dalla scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero»
[10].
Keynes si mostrava inoltre preoccupato dalla “incapacità di adattarsi” nel breve termine
[11], che forse rispecchia a pieno il problema odierno dell’automazione: l’inadeguatezza delle istituzioni e dell’intera società a gestire, organizzare e reggere il ritmo del cambiamento tecnico e le ripercussioni dell’innovazione sui lavoratori.
Quando la tecnologia elimina (come è avvenuto in passato) un tipo di lavoro o addirittura un’intera categoria di lavoratori, questi dovranno adattarsi al cambiamento aggiornando le proprie competenze e trovandosi un nuovo posto di lavoro. Questo potrebbe impiegare del tempo. Per gli ottimisti si tratta solo di una fase temporanea, alla fine della quale l’intera società gioverà delle innovazioni apportate mentre l’economia troverà un nuovo equilibrio
[12].
Ma se ci volesse più di un decennio per raggiungere questo equilibrio?Quali sarebbero le ripercussioni su milioni di posti di lavoro che verrebbero in breve tempo cancellati?
[13] E se poi a quel punto la tecnologia fosse di nuovo cambiata e i lavoratori non riuscissero a starle dietro?
Dovremmo in conclusione chiederci se il gap tra il progresso tecnologico e l’adattamento dei lavoratori sia colmabile oppure sia insanabile e anzi non rischi di rafforzarsi e di aumentare così la diseguaglianza.
Le statistiche economiche mostrano infatti che l
a dicotomia tra abbondanza e disuguaglianza si fa sempre più ampia[14]. Come evidenziato dall’economista Jared Bernstein,
senior fellow del Center on Budget and Policy Priorities, «produttività e impiego si sono sganciati l’uno dall’altra»
[15].
IL RISCHIO DI UNA TECNOCRAZIA
Il professore della MIT Sloan School of Management Eric Brynjolfsson e il suo collaboratore Andrew McAfee sostengono che
la tecnologia ha distrutto il lavoro in maniera molto più veloce di quanto ne abbia creato: a breve molti lavori, non solo quelli più vulnerabili all’automazione, dovranno far fronte a una capillare diffusione dei robot.Questa è una tendenza che si riscontra negli USA, così come negli altri Paesi tecnologicamente avanzati
[16]. Presto non solo il settore manifatturiero o le attività al dettaglio saranno nel mirino della tecnologia, ma anche campi più complessi: la medicina, la finanza, l’assistenza ai clienti (esempio nei call center), il settore legale.
Quello che gli autori sottolineano è che
l’innovazione avrebbe potuto essere «una marea che solleva le barche allo stesso modo»
[18], ma così non è stato. Insomma, se la torta complessiva dell’economia sta crescendo, la maggioranza delle persone però, a causa dei progressi tecnologici, sta peggio
[19].
Sebbene non sia l’unico fattore, la tecnologia ha favorito l’aumento delle diseguaglianze e quello che avverrà nei prossimi due decenni preoccupa numerosi economisti, politici e ricercatori.
Non ci si può stupire, pertanto, se sempre nel 2013 l’economista della George Mason University
Tyler Cowen pubblica
Average is Over, in cui immaginava un futuro prossimo spaccato in due dall’automazione
[20].
Da una parte ci sarà una piccola tecnocrazia/oligarchia di persone altamente istruite e sempre più ricche che avranno capito come lavorare insieme alle macchine, dall’altra la stragrande maggioranza delle persone che non saranno state in grado di stare al passo con il progresso tecnologico[21].
In un mondo in cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, nel prossimo futuro chi non sarà creativo e competitivo soffrirà la fame molto di più che in passato.
NOTE
[9] Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee,
La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 187.
[14] Eugeny Morozov,
Silicon Valley: i signori del silicio, Codice Edizioni, pp. 11 ss.
[15] Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee,
La nuova rivoluzione delle macchine, op. cit., p. 177.
[17] Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee,
La nuova rivoluzione delle macchine, op. cit., p. 177.
[21] Riccardo Staglianò,
Al posto tuo, Einaudi, p. 74.
[3] Cfr. Massimo Gaggi,
Homo Premium. Come la tecnologia ci divide, Laterza, 2018, Bari, p. XIV.